Uno dei pochi vantaggi
del vivere in un’epoca de-ideologizzata è certamente quello di poter valutare
le cose e le vicende del recente passato con maggiore obiettività. É questa una
delle ragioni della riscoperta negli ultimi anni del Museo Rosenbach. Quando
nel 1973 il gruppo ligure diede alle stampe il primo disco, Zarathustra, un
colossale equivoco lo condannò all’ostracismo, allontanandolo dalla
televisione, dai festival e dai principali circuiti di diffusione. Ciò avvenne in
primo luogo per la particolare immagine di copertina, un volto mostruoso e ambiguo realizzato con un abile collage di più elementi, tra cui un busto di
Mussolini. In secondo luogo, malvisto era il tema portante del concept, un
omaggio a Nietzsche e alla teoria del Superuomo, superficialmente associati al
pensiero nazionalsocialista. A nulla valse la giustificazione che l’immagine di
copertina fosse una mera provocazione, del tutto priva di intenti apologetici. E
dire che la spiegazione era riportata nelle stesse note che accompagnavano
l’album, ove era scritto che «la disperata ricerca del Superuomo non vuole
realizzarsi nell’immagine del violento condottiero di una razza pura, come è
stata erroneamente e tristemente interpretata, bensì nella serena figura
dell’uomo che, vivendo in comunione con la natura, tende a purificare da ogni
ipocrisia i valori umani». Etichettati come fascisti, i Museo Rosenbach non
ebbero alcun riconoscimento all’epoca, per pure ragioni di ostracismo
ideologico.
A distanza di tanto
tempo, invece, emergono almeno due considerazioni. La prima è che l’immagine di
copertina, a guardarla bene, è forse una delle migliori di quegli anni, oltre a
ricordare vagamente il celeberrimo volto di In the court of the Crimson King.
La seconda è che il Museo non era uno di quei gruppi trascurabili, riscoperti
negli ultimi tempi solo perché appartenenti al periodo prog. È infatti una costante
tendenza quella di considerare “grandi misconosciuti” gruppi che
all’epoca non ebbero alcuna eco per la scarsa qualità e originalità del suono,
riesumati di recente per pure ragioni cronologiche. Con il Museo questo rischio
non c’è: il loro lavoro è davvero ottimo, uno dei migliori del periodo. Se
dovessi fare una mia personale classifica, lo collocherei tra i primi dieci
dischi prog, assieme all’omonimo del Banco, al primo dei Napoli Centrale, ad Arbeit
macht frei degli Area, all’esordio del Biglietto per l’inferno, ad Aria di
Sorrenti e Collage delle Orme. Su internet si leggono tanti autorevoli
interventi, da parte di chi addirittura definisce Zarathustra il miglior LP
progressive italiano di sempre; sul punto, credo che il giudizio sia
inquinato dalla volontà di rendere giustizia postuma al Museo. Un gran bel disco,
però, lo è sicuramente.
Ascoltandolo, mi hanno
colpito la qualità delle parti vocali (e dei testi) e la varietà del suono.
Partendo da quest’ultimo, si nota una maggiore vicinanza ai gruppi
anglosassoni; l’ipnotico giro di mellotron in Superuomo, ad esempio, non
avrebbe sfigurato in un lavoro dei King Crimson. La prima facciata è
interamente occupata da una lunga suite, divisa in quattro momenti. Qualsiasi
conoscitore della musica sa quali sono i rischi insiti in una suite di venti
minuti: annoiare l’ascoltatore con eccessivi virtuosismi, oppure trascinarlo in
una sequela di passaggi disorganici e mal collegati tra loro. Proprio per questo,
pochi sono gli esempi del genere compiutamente realizzati. La lunga prima
facciata di Zarathustra è uno di questi rari e riusciti casi, grazie al felice
combinarsi della chitarra elettrica e delle tastiere, mai troppo invasive, con
in più la straordinaria sezione ritmica della batteria di Giancarlo Golzi. I
modelli di riferimento sono quelli di oltremanica, con in più delle venature
hard rock perfettamente innestate nel contesto.
La seconda facciata è
composta di tre lunghe tracce, tra cui l’eccellente Dell’eterno ritorno, con
le parti vocali in maggiore evidenza. Proprio questo è un altro punto di forza
dell’album, per effetto della duttile voce di Stefano "Lupo" Galifi. Senza
voler fare paragoni con le grandi voci di quegli anni, come Di Giacomo o
Stratos, non si può però negare che, sia pure senza grandi doti tecniche, anche
quella del cantante del Museo sia stata una delle più interessanti del panorama,
specialmente per la capacità di inserirsi organicamente nelle parti strumentali
e di variare di tono e intensità, passando dalla drammaticità al sussurro,
fino all’urlo.
Ci sono ottime ragioni
per acquistare questo disco, a prescindere dalle aspre polemiche che, nel bene
o nel male, ne hanno decretato la fama. Quando si parla di buona musica,
sarebbe bene mettere nel cassetto le ideologie stantie ed aprirsi alla forza
persuasiva del suono.
La controversa copertina di "Zarathustra" (1973)
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