8 gennaio 2016

"Bastogne" di Enrico Brizzi: la sterile apologia del male

Mentre Jack Frusciante è uscito dal gruppo mi aveva sinceramente entusiasmato, Bastogne è riuscito nell’intento opposto, provocandomi un senso confuso di disturbo e noia. E se l’effetto disturbante era certamente voluto dall’autore, non credo lo fosse il secondo. Il romanzo non mi ha avvinto perché, fin dai primi capitoli, si assiste ad una ripetizione costante di situazioni, gesti ed espressioni, che alla lunga danno il senso del già sentito. Si potrebbe dire che abbondano le scene forti, ma si sente la mancanza di una trama forte.
In una Nizza assai somigliante ad una città della provincia italiana, vivono Raimundo, Ermanno e Dietrich, poco più che ventenni, dediti principalmente allo spaccio di sostanze stupefacenti, alle risse da stadio e ai piccoli furti. La situazione prende una piega ancora più perversa quando fa ritorno in città il Cousin Jerry, punk dell’ultima ora con una vita di espedienti alle spalle, sbandato ma pieno di carisma. Sarà lui a trasformare quel gregge di teppistelli di periferia in un temibile branco di assassini e aguzzini. Spinti dall’odio nei confronti della società borghese e dei suoi simboli, i quattro iniziano a mettere a ferro e fuoco la città, con stupri, omicidi, rapine e violenze di ogni genere. Obiettivo preferito delle loro scorribande sono i “lavoratori”, emblema di un’umanità servile e prona ai doveri, considerata non meritevole di vivere.
I protagonisti sono animati da un vago senso di ribellione sociale, di carattere puramente distruttivo, che li porta a commettere ogni genere di nefandezze, in un crescendo di violenza che non trova alcuna giustificazione, se non in se stessa. Ed è proprio questo il punto debole del romanzo: qual è il senso della rappresentazione di tanto odio? Brizzi non dà alcuna risposta a questa domanda. Il romanzo manca di spunti critici in tal senso; al di là dei feroci strali contro la società borghese, l’autore non sembra porsi la domanda, sì scontata, ma che meriterebbe una risposta: ha senso voler sovvertire una società che si sente come oppressiva utilizzando i mezzi più devastanti e sanguinari che si possano immaginare? Leggendo Bastogne tutti questi interrogativi restano lettera morta. Il libro è il canto perverso di una generazione devastata dalla droga e istupidita dal benessere; proprio in questo senso, i protagonisti non sono poi così diversi dal resto dell’umanità, che pure odiano con tutte le loro forze. Ciò che a loro manca non è la moralità, perché anzi hanno un fortissimo senso dell’amicizia e della lealtà; il loro più grave peccato è l’essere del tutto privi di quella forza liberatoria, anarchica e costruttiva, che è l’unica forma di ribellione possibile. Sono schiavi dello stesso sistema che vorrebbero vincere, preda degli stessi vizi piccolo-borghesi (le donne, la droga, l’alcool, i motori) da cui vorrebbero emanciparsi. Ecco perché la loro prepotenza resta odiosa, stupida, ingiustificata, destinata a sicura sconfitta; ed ecco perché, viceversa, le pagine più solari e vive del romanzo sono quelle che rievocano i giorni spensierati dell’infanzia, pieni di una vitalità sincera, non indotta artificialmente.
Penso dunque che il libro sia riuscito a metà: sia pure coraggioso per i temi affrontati, non riesce però a portare il lettore ad un livello più alto di quello meramente narrativo, ossia il piano della riflessione e del giudizio critico. Una nota di merito, in ogni caso, va allo stile: veloce, efficace, moderno, ricco di neologismi. Con Jack Frusciante e, ancora di più, con Bastogne, Brizzi è riuscito a costruire un linguaggio febbrile, corposo, fulmineo. Se dovessi trovare un punto di forza nel libro, direi che è certamente nella scrittura.

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