Il marchigiano Paolo
Tarsi è un musicista d’avanguardia che sta ottenendo importanti riscontri, già
indicato dalla critica come una delle figure emergenti della musica
sperimentale nostrana. Recentemente ha pubblicato il suo secondo disco, Furniture
music for new primitives. Ho avuto il piacere di recensirlo e di fare una
chiacchierata con Paolo. Buona lettura.
La recensione
Ci vuole molto coraggio, non solo in
senso figurato, ad immergersi nel mare
magnum della sperimentazione. Eppure, è forse proprio in questo settore,
più che altrove, che si viene a creare una corrispondenza personale, direi
quasi intima, tra l’artista e l’ascoltatore. Ho usato volutamente la parola
“ascoltatore”, perché mai come nell’ambito della musica d’avanguardia occorre
abiurare la parola “fruitore” che spesso viene utilizzata in altri contesti,
prettamente commerciali. Questo secondo disco del marchigiano Paolo Tarsi, dopo
Dream in a landscape, merita proprio
di essere “ascoltato”, ossia non semplicemente “sentito”, ma compreso nella sua
complicata struttura. Furniture music for
new primitives ha suscitato l’attenzione di molti critici, che hanno
individuato in Paolo Tarsi una delle figure emergenti della musica sperimentale
nostrana. Il disco, dedicato allo scrittore beat William Burroughs, è stato
pubblicato dalla storica etichetta Cramps, quella degli Area e del primo
Finardi, per intenderci. Numerosi sono gli artisti che hanno partecipato al
progetto; tra questi, Paolo Tofani, che suona la sua trikanta veena in Construction
dans l’espace et le silence, la formazione d’archi Quartetto Maurice,
Roberto Paci Dalò e il sassofonista Michele Selva. L’intento del progetto, come
chiarito dallo stesso musicista, è un ritorno alle origini del minimalismo, in
un continuo e fecondo dialogo tra rock sperimentale, elettronica,
improvvisazione e musica contemporanea.
Si apre con Dreamtime, che ci cala subito nelle atmosfere del disco, con un
cupo clarinetto basso che si staglia su echi elettronici, scampoli di suoni
provenienti da altre galassie. In Cluster
#2 il tappeto sonoro si arricchisce; anche se non c’è una linea ritmica di
fondo, che sostenga tutto il discorso, non si può negare che il brano possieda
una propria unitarietà, con arpeggi di chitarra elettrica a dominare la scena.
Segue Electric Sakuhin, sicuramente
il pezzo più complesso e compiuto, arricchito da lievi percussioni. Suonato con
la collaborazione del Junkfood 4tet, è un sottile gioco elettronico, di
continui rimandi e rinvii sonori, dall’incedere quasi ipnotico. Sebbene stiamo
parlando di avanguardia, è questa forse la traccia più “accessibile”
dell’album, in cui il convulso esordio si scioglie in una ben definita linea
melodica. Maestoso il finale, quasi da opera rock, con la chitarra in grande
evidenza. In the total animal soup of
time può essere letta come un’ideale prosecuzione, su toni più soffusi,
della traccia precedente. Si viene catapultati in un territorio mistico,
dominato però da suoni computerizzati; l’impressione è quella di trovarsi in un
tempo futuro eppure primordiale, senza uomini e senza dèi. Si arriva poi a Construction dans l’espace et le silence,
con la collaborazione del grande Paolo Tofani, che suona la sua trikanta veena; suggestioni orientali,
sentori d’incenso, tracce di musica indiana si combinano in un felice connubio.
Chiude il disco Minutes to go, ancora
con Tofani, dove affiora un parlato lontano, metallico; è forse in questa
traccia che più si sente l’influenza delle sperimentazioni estreme degli Area, come
quelle contenute in Crac.
Una proposta interessante, tra minimalismo
ed improvvisazione, ambient e musica
da camera, tracce di un certo rock primitivo, con gli Area, Battiato, Eno e
Cage a fare da apripista. Per chi ama l’avanguardia, per chi osa lasciare la
strada sicura della musica tradizionale per affrontare ardui percorsi sonori in
salita.
L’intervista
Domanda. Ciao Paolo. Qual è il
significato di un titolo apparentemente così criptico come Furniture music for
new primitives? E chi sono i “nuovi primitivi”?
Risposta. Il titolo dell’album prende spunto in parte dalla traduzione in
inglese di Musique d’ameublement (letteralmente
significa “musica da arredamento”, talvolta tradotta con “musica da
tappezzeria”), l’espressione coniata da Erik Satie per definire l’ultima fase
della sua produzione. Non manca un riferimento, poi, al presente in cui viviamo.
Un mondo completamente saturo di segnali e modi di comunicare, popolato sempre
più spesso da creature completamente virtuali che si muovono quasi come dei
nuovi primitivi di fronte alle possibilità tecnologiche del XXI secolo. Ed è
per tentare di rispondere ai sovraccarichi di messaggi che caratterizzano la
nostra epoca che le composizioni di questo disco si basano tutte su pochissimi
elementi musicali. Un modo per permettere a questi brani di imprimere al loro
passaggio un segno più duraturo nella memoria di chi ascolta, ma non solo. Ogni
composizione è prima di tutto esaustiva nella propria essenzialità.
D. Nelle tracce del
disco si avvertono echi della musica sperimentale italiana degli anni Settanta,
come Area, il primo Battiato, gli Arti e mestieri, il Perigeo. In quali aspetti
ne hai tratto ispirazione? E quali sono, invece, le chiavi del tuo personale
linguaggio musicale?
R. Il disco in un certo senso è inversamente speculare all’album
Maledetti degli Area, con cui condivide peraltro una dimensione aperta. Laddove
in Maledetti (1976) una formazione classica – il quartetto d’archi –
decostruiva Bach in un contesto progressive, qui trovano spazio miniature per
piccoli ensemble da camera (più o meno elettrificati) accanto a un unico brano
propriamente rock. Quindi, come giustamente hai notato, gli Area sono stati un
punto di riferimento molto importante per me. Hanno saputo unire in maniera
unica la sperimentazione elettronica con rock, free jazz, avanguardia colta e
persino con la canzone, senza dimenticare mai che la musica, anche quando è ricerca,
è prima di tutto comunicazione. Ad ogni modo i miei punti di riferimento sono
innumerevoli e non solo musicali. Nel disco compaiono in codice omaggi a Richard
Wright e ai Pink Floyd, a Donald Fagen degli Steely Dan, al compositore Edward
Elgar, a Roy Lichtenstein e a Burroughs, naturalmente. Credo sia fondamentale
filtrare il mondo che ci ruota attorno per poi trovare una personale chiave di
lettura, un modo del tutto proprio di raccontare le cose. Ogni artista, sono
convinto, deve trovare una sua autonomia che lo porti ad essere indipendente
dagli altri, per questo sono molto critico verso me stesso nel mio lavoro. Mi
fa sempre molto piacere quindi vedere riconoscere in questo disco, da parte di
chi lo ha ascoltato, forte e ben identificabile la mia firma. Per intenderci,
questo non è – né vuole esserlo – un disco à
la manière de. I riferimenti a cui accennavo non devono trarre in inganno.
D. In un’epoca come la
nostra, di quasi totale desertificazione culturale, quali sono le motivazioni
che spingono un artista a spendere se stesso e la sua creatività per la
sperimentazione, per l’avanguardia?
R. Non saprei, la mia
non è una posizione ideologica. Scrivo musica in completa libertà e so di
essere fortunato perché non sempre ciò è possibile. Direi che semplicemente
inseguo ciò che più mi gratifica. È anche una forma di ricerca interiore, se
vuoi. Però, in futuro, se dovessi sentire l’esigenza di esprimermi in maniera
più diretta lo farò con la stessa onestà intellettuale e senza soffermarmi
troppo sui distinguo di genere.
D. La tua è una musica
colta, di non immediata assimilazione. Chi sono i destinatari di questo
messaggio?
R. Quando scrivo non
penso mai alla reazione del pubblico. Con questo non voglio dire che non tenga
in considerazione la figura dell’ascoltatore, tutt’altro! Semplicemente non
cerco di compiacerlo, il risultato non soddisferebbe nessuno. Allo stesso tempo
non si tratta di un progetto pensato per una ristretta cerchia di ascoltatori: per
avvicinarsi alle musiche contenute in questo disco non è necessario leggere
alcun manuale di istruzioni! Chi ama Brian Eno, Battiato, Björk, i Pink Floyd o
i Radiohead, così come Philip Glass, Steve Reich, Terry Riley e i Velvet
Underground, ha tutti gli strumenti per avvicinarsi a queste sonorità senza
dover essere necessariamente a sua volta un addetto ai lavori. Detto ciò, se l’arte
è libertà di espressione, tolta anche questa, oggi agli artisti cosa resterebbe?
Dato che le possibilità di guadagno ultimamente si sono ristrette un po’ per
tutti, mentire agli altri e prima ancora a se stessi non avrebbe proprio senso.
D. Mi ha sempre
incuriosito la figura di Paolo Tofani: dagli esordi con i Califfi, passando per
gli Area, Claudio Rocchi e gli Hare Krishna. È anche uno degli ospiti del tuo
disco; cosa puoi raccontarci di lui?
R. Paolo è una persona
semplicemente fantastica e un musicista che non si è fermato al percorso, pur
importante, avuto con gli Area. Ha saputo rinnovarsi giorno dopo giorno grazie a
una mente rivolta al futuro, esplorando idee nuove e sonorità sempre fresche.
Il suo ultimo album, Real Essence (2015), ne è la dimostrazione più lampante.
D. Venendo alla
struttura del disco, ho una curiosità. Si può parlare di un concept album, nel
senso che le tracce sono legate da un continuum, oppure vivono in completa
autonomia le une dalle altre?
R. Il concept del disco si ispira alla struttura del romanzo Le città della notte rossa di William S. Burroughs, in cui la
percezione della realtà del racconto ad ogni capitolo si fa sempre più distorta
e intricata. Come risucchiato in un piccolo vortice, dopo un inizio quieto e
quasi rassicurante l’album approda in un cumulo di elettricità e di elettronica
indecifrabile dove la voce affilata di
Burroughs e quella magnetica di Paolo Tofani si incontrano e si infrangono in
uno specchio gonfio di suoni saturi. Ed è in questa traccia nascosta, dal
titolo Minutes to Go, che trova conclusione un lavoro fortemente unitario e,
se vuoi, persino un po’ enigmatico grazie anche alla bellissima veste grafica originale
realizzata da Luca Domeneghetti e Roberto Masotti.
D. Quali sono i tuoi
progetti futuri?
R. Recentemente sono
entrato in studio per registrare materiale inedito che verrà presentato a
breve, seguiranno nuovi concerti e l’uscita di un documentario per cui ho
scritto le musiche. Ho anche in cantiere un libro ma, come sempre, il futuro resta
tutto da scrivere. Ho già preso carta e penna ma per ora sono pagine di un
diario segreto. Promuovere adeguatamente il nuovo album resta l’obiettivo principale.
Paolo Tarsi (a sinistra) con Paolo Tofani
La suggestiva copertina del disco
Furniture Music for New
Primitives (Cramps/Rara Records) è acquistabile:
in digital download su iTunes, Amazon, Google Play
in
e-commerce (spedizione a casa)
scrivendo a contemporaryjukebox@gmail.com
Nessun commento:
Posta un commento
Commenta l'articolo!