Una recensione de Le
rovine in attesa, a cura di Federica Privitera, è apparsa stamane sulla rivista CriticaLetteraria.org. La riporto di seguito, ringraziando l’autrice per l’analisi.
QUANDO LE ROVINE
SONO I RUDERI DEL NOSTRO ANIMO
A cura di Federica
Privitera
Si dice che la
lettura abbia quel magico potere di far viaggiare i lettori su mezzi di
locomozione speciali, in cavalcate fantasiose verso luoghi e tempi lontani. Le rovine in attesa offre la possibilità di un viaggio, così come qualunque altro
libro di narrativa, eppure offre il vantaggio dell’indeterminatezza. Sebbene
sia chiaro, infatti, che la realtà storica sia lontana da quella contemporanea,
il testo non possiede le coordinate temporali per collocare la storia (e anche
un po’ se stessi) in un momento specifico. Ciò che si respira è un’atmosfera lontana,
impolverata e rarefatta che affascina ma al tempo stesso estrania.
Non ci si riesce
immediatamente a immedesimare (anche se non è obbligatorio che questo venga
fatto durante la lettura) nelle vicende di Erminio Narri, un giurista che
lavora in una biblioteca di teologia che lo opprime, lui che adora i codici, le
leggi e si nutre di ogni statuto. Angosciato dalla prospettiva di passare la
vita chiuso in quel luogo odioso e desideroso di una gloria che possa aiutare
ad affermarlo nel panorama degli studiosi di diritto, sembra ottenere un
riscatto quando riceve la lettera di un anziano nobiluomo meridionale, Don
Alberico Priviano, che lo invita a discutere con lui di un
affare urgente e segreto. Allettato dalla proposta, non esita un momento a
licenziarsi, fare i bagagli e partire alla volta del decadente palazzo per abbracciare
un futuro ridivenuto intrigante. Don Alberico, la giovane
moglie Viola, l’amministratore Campi,
il maggiordomo Armando e il misterioso Frate Ruggero, Fra Cristoforo dei giorni nostri, accompagneranno Erminio in un
percorso di studio non più solo giuridico ma propriamente interiore.
La storia, che non
rivela eccessi narrativi coinvolgenti o riflessivi, sorprende per il linguaggio
con cui viene narrata: un italiano arcaizzante (a tratti in maniera
artificiosa) che contribuisce con forza ad alimentare quell’atmosfera
indefinita che già la collocazione temporale aveva contribuito a creare. Una coerenza
linguistica che, sebbene a volte risulti difficile da digerire durante la
lettura, si coniuga perfettamente con alcune delle massime enunciate nel libro.
In un’altalena tra il passato e il futuro, il mondo perduto che viene raccontato
possiede una patina di nostalgia, frutto delle riflessioni dei personaggi:
«La libertà è la scelta di un’esistenza votata alla ricerca di una schiavitù in cui vogliamo cadere, perché solo in essa ci sentiamo veramente appagati. […] Cosa sono queste presunte libertà se non formidabili schiavitù, a cui per convenzione o per convinzione ci si assoggetta?»
Condivisibile o
meno in un contesto storico come quello attuale, la sentenza pronunciata dal
coprotagonista oramai disilluso sul futuro, si dimostra ancora una volta
coerente con l’impianto dato a tutta la storia. Proprio la trattazione dell’oscuro
progetto avvincerà i protagonisti in un comune destino, che li porterà ad
accettare definitivamente il peso della propria inettitudine morale e
materiale. I due, apparentemente così diversi, si scopriranno vicini, entrambi
pervasi nel profondo dell’animo da una solitudine alla quale hanno cercato di
dare maldestramente sollievo con l’ansia del successo e una vana aspirazione di
rivincita.
Ecco che le rovine in attesa del titolo si
svelano a poco a poco: non hanno nulla a che vedere con i resti archeologici a
cui tutti siamo abituati ma sono doppiamente gli individui che aspettano invano
un cambiamento nella società e che si crogiolano nella loro solitudine
rifiutando il contatto con il mondo esterno, e rovine sono anche i desideri vani
dell’uomo, dal denaro all’affermazione e la gloria. Erminio e Don Alberico
perderanno tutto proprio ricercando spasmodicamente “altro” senza trovare una
serenità profonda. Pur nell’inconsistenza della trama e della definizione dei
personaggi, due immagini rimangono indelebili dalla lettura de Le rovine in attesa. Una splendida descrizione dei bar ottocenteschi, grazie alla
quale un quadro impressionista sembra affiorare tra le parole, con i suoi fumi
e le sue pulsioni artistiche dirompenti; un èkphrasis in perfetto stile omerico,
poi, campeggia tra le pagine e a partire dalla cornice di uno specchio si
racconta una storia accattivante e distensiva, parentesi affabulatoria in un
lento incedere della trama, breve momento di serenità che spinge alla
riflessione.
Un libro che, come un ponte rotto fra le sponde del passato e
del presente, propone tra le righe (e con una forza che sarebbe dovuta essere
maggiore) un’invettiva contro la seduzione e i desideri di gloria.
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