Undici anni separano i
romanzi Una lunga rabbia (1961) e La paloma (1972) di Carlo Castellaneta,
undici anni di profondi cambiamenti nel Paese, che passa dal sogno del
benessere all’incubo del terrorismo. La cesura è tanto più evidente se, nel
leggere le due opere, si segue la cadenza cronologica. Se è vero che nel
secondo libro la scrittura dell’autore milanese si fa più matura, è altresì
innegabile l’avanzare di un cupo pessimismo, di una totale disillusione verso
il sistema. Si potrebbe dire che in Una lunga rabbia il germe della violenza
è ancora contenuto, sì che lo stesso sistema si presenta nelle forme del datore
di lavoro burbero ma bonario, aduso alle piccole meschinità a danno dei suoi
sottoposti, che ancora possono covare una speranza nel cambiamento. Ne La
paloma, invece, la violenza esplode in tutta la sua cieca brutalità, arrivando
finanche all’omicidio politico.
Iniziando l’analisi
comparativa dal primo romanzo, preme sottolineare una curiosa coincidenza: il libro
di Castellaneta venne pubblicato nel 1961, nello stesso anno in cui nelle sale
cinematografiche uscì Il posto di Ermanno Olmi. Simile la trama: un ragazzo
della periferia milanese, lasciata la scuola, cerca un impiego stabile, il
cosiddetto posto fisso, feticcio di un’esistenza libera dal bisogno. Identica
la scenografia: la Milano in piena trasformazione degli anni Sessanta, divisa
tra la sua più antica anima popolare e quella moderna degli affari, destinata infine
a prevalere. Diverso è però l’animus dei due protagonisti. Domenico, il
protagonista del film di Olmi, è un ragazzo di un’ingenuità disarmante,
disposto ad accettare apaticamente le regole che gli vengono imposte, senza
tentare una ribellione. Rico, il personaggio principale del romanzo di
Castellaneta, invece, rifiuta di accettare i compromessi, contesta le regole
stesse del sistema e cerca degli strumenti per opporvisi. Nessuno, tuttavia, si
mostrerà sufficiente: né lo studio, né l’onesta, né il reato, né tantomeno l’arte,
a lungo vagheggiata da Rico quale unica ancora di salvezza. E allora, che cosa
rimane di vero in questo inestricabile groviglio che è il mondo? È il pittore
Oreste, amico e mentore di Rico, a dare la risposta: soltanto un’infinita
rabbia.
«Una lunga rabbia è una cosa grossa, che capita a pochi, come una passione d’amore. Di piccole rabbie, di capricci, siam buoni tutti. Ma una rabbia lunga, ragionata, coltivata giorno per giorno, che sia da sola una ragione per campare, non è facile averla.»
Eppure, nonostante
l’apparente crudezza di queste parole, il libro lascia trasparire una sottile
speranza, nella convinzione dei personaggi di riuscire prima o poi a
conquistarsi il tanto agognato posto al sole.
La paloma, invece, è
un libro più duro e pessimista, che riflette il clima degli anni in cui fu
concepito e scritto. L’Italia è quella degli anni Settanta, dilaniata dagli
scontri di piazza, dalla strategia della tensione e dalle trame eversive.
Pietro, il protagonista del romanzo, è un ferroviere anarchico (un palese
omaggio alla figura di Pinelli), che ha eletto la rabbia a ragione di vita.
Egli, tuttavia, rifiuta la violenza, sia quella dei “compagni” che quella di
Stato. L’ideale per cui combatte è puro, racchiuso in poche, efficaci immagini.
«L’anarchia è il bosco, la ragnatela, la foglia, amore della vita, rivoluzione dentro le cose. […] L’incendio che noi professiamo è dentro il cervello dell’uomo, mica dentro le caserme.»
La narrazione si snoda lungo tre piani, che rappresentano le
tre dimensioni del protagonista: il lavoro, la famiglia e il circolo politico.
Castellaneta adotta un’efficace scelta narrativa: l’io narrante del romanzo non
è infatti Pietro, ma la moglie Lisetta, che descrive il marito in pagine pregne
di commozione e di amaro disincanto. Eppure, nonostante Pietro sia una figura
positiva e quasi luminosa, sarà destinato a soccombere, schiacciato da due
violenze, che egli egualmente abiura: quella scientifica dello Stato borghese e
quella irrazionale delle frange più estreme del movimento anarchico. Il libro
si chiude così con un’immagine forte: le parole di vendetta vergate sui muri
della città, a voler significare che non è possibile uscire incolumi dal
circolo della violenza.
Lo scrittore Carlo Castellaneta (foto tratta da Repubblica.it)
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