Terra mia (1977) è un disco
prettamente partenopeo, forse imperfetto come la città che descrive, ma certamente
sentito, ben scritto, radicale, di grande potenza espressiva. É raro
trovare nella musica italiana un esordio così chiaro e preciso negli intenti. Con
ciò non voglio dire che si tratta del miglior LP di Pino Daniele; personalmente
preferisco il terzo, il celebre Nero a metà, in cui si approfondisce il
marchio di fabbrica dell’artista da poco scomparso, il felice connubio tra musica
popolare, rock e blues. Terra mia resta però un album perfettamente compiuto,
organico e coerente, un risultato stupefacente se si pensa che Daniele aveva
soltanto ventidue anni quando lo registrò, meno ancora quando lo compose.
Si potrebbe dire che si
tratta di un concept, perché tutte le canzoni, sia pure non legate propriamente
tra loro, raccontano la stessa secolare storia, quella della città di Napoli e
dei suoi abitanti. Sono tredici quadretti di vita partenopea, di respiro quasi
letterario, tanto che non è azzardato affermare che il corrispettivo narrativo del
disco è la raccolta di novelle L’oro di Napoli di Giuseppe Marotta. Sia Daniele
che Marotta hanno raccontato la Napoli dei vichi e dei bassi,
arrabbiata e al tempo stesso assuefatta al proprio destino.
Terra mia trae le
proprie radici dalla tradizione della musica popolare, su cui vengono innestati
echi provenienti da altri mondi, dando vita ad una primigenia fusion. La base
del disco è dunque il folk, ma vi sono tracce di quella che sarà la forma
musicale più originale dell’artista partenopeo, il ponte che unisce Napoli con l’America. Pino Daniele suona
quasi tutto: chitarra elettrica, classica, acustica, mandola e mandolino. Lo
accompagnano musicisti di prim’ordine: Rosario Iermano alla batteria, Enzo Avitabile
ai fiati e Rino Zurzolo al basso.
Apre le danze la
celeberrima Napule è, pezzo straordinario non solo dal punto di vista musicale,
ma anche e soprattutto lirico, perché bastano pochissimi versi per descrivere
compiutamente l’anima più profonda della città. Segue un altro classico del
repertorio, ‘Na tazzulella ‘e cafè, in cui, con tono abilmente ironico, vengono
sbeffeggiati i potenti che si spartiscono la città, mentre il popolo viene
ammansito a panem et circenses, anzi a cafè et circenses. Altro capolavoro è la
quarta traccia, Suonno d’ajere, che si presenta nella forma di uno struggente
dialogo tra il popolo e Pulcinella, accusato di non essere più quello di una
volta, di essersi tolto la maschera e di non voler far più ridere grandi e
piccini, costringendo la gente a pensare. E Pino Daniele, che per l’occasione
veste i panni del novello Pulcinella, fa valere le sue ragioni: non è vero che
ha abbandonato il suo popolo, sono le urgenze del momento storico che gli
impongono di gettare la maschera e di assumere un atteggiamento critico, perché
è tempo di svegliare la gente, che dorme il sonno beato dell’impotenza. Gli
altri brani raccontano vividi episodi della vita quotidiana dei bassi: il
furtarello commesso da due delinquenti di strada (Maronna mia), il venditore
ambulante (Fortunato), il vecchio che cammina in riva al mare da solo,
consumando il dolore della vedovanza (Cammina cammina), le cantilene delle
donne affacciate alle finestre (Saglie, saglie).
Una menzione speciale
meritano le ultime due tracce. ‘O padrone è forse il brano musicalmente più
complesso, retto dalla chitarra elettrica e da una pimpante sezione ritmica, che
anticipa temi e suoni della successiva produzione di Daniele. Chiude il disco
la tormentata Libertà, con quei versi iniziali che da soli valgono il prezzo
del biglietto:
Chiove 'ncoppa a 'sti palazze scure,
'ncoppa 'e mure fracete
d'a casa mia,
tutt'attuorno l'aria addora 'e 'nfuso.
Chi song'io che
cammine 'mmiezo 'a via
parlanno 'e libertà.
Bello questo ricordo di Pino Daniele attraverso il suo disco di esordio. Ed è interessante l'accostamento della sua musica e delle sue parole ai racconti di Giuseppe Marotta, il grande scrittore napoletano, le cui origini erano legate proprio a quella Napoli "dei vichi e dei bassi" cantata da Pino Daniele.
RispondiEliminaGrazie della visita e del commento. In effetti è un accostamento davvero sorprendente, ma non azzardato. L'unica differenza è che tra la Napoli di Marotta e quella di Daniele passano quasi quarant'anni. Eppure, lo spirito della città è sempre lo stesso.
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