Il giovane indiano
Vikram Seth, futuro autore di libri di successo, nell’estate del 1981 decise
quasi per caso di intraprendere un viaggio proibitivo, sia per le condizioni
climatiche e delle infrastrutture che per gli ostacoli burocratici: dalla Cina all’India
passando per il Tibet. Autostop per l’Himalaya è l’asciutto e piacevole
resoconto di quell’itinerario, vincitore del Thomas Cook Travel Book Award,
importante riconoscimento per la narrativa di viaggio. All’epoca dei fatti,
Seth era uno studente dell’Università di Stanford, residente da due anni nella
città cinese di Nanchino per un programma internazionale di studi. Dopo la
rigida chiusura della Rivoluzione culturale, la Repubblica Popolare stava
iniziando, sia pur timidamente, una nuova fase di apertura verso il mondo,
consentendo gli scambi culturali con studenti stranieri. Raramente, però,
era consentito ai forestieri di viaggiare da soli per il Paese; le autorità
avevano cura di pianificare nei minimi dettagli gli itinerari per gli
stranieri, che di fatto venivano sottoposti ad un controllo più di stampo
paternalistico che autoritario. Vikram Seth decise di rompere il protocollo:
dovendo ritornare in India per le vacanze estive, pensò di farlo nel modo più
avventuroso possibile: viaggiare in autostop fino in Tibet, arrivando infine a
Delhi passando per il Nepal.
All’epoca la Cina era
agli albori della rapida trasformazione economica e tecnologica che l’avrebbe
trasformata nel gigante dell’industria che oggi conosciamo. La Rivoluzione
culturale, nella sua cieca furia iconoclasta, aveva distrutto tanti aspetti
della tradizione, ma non era riuscita a mutare l’animo più profondo della
nazione. Questo aspetto viene in più occasioni rimarcato da Seth, che si
sofferma sui cambiamenti in atto con uno spirito da saggista, concentrando l’attenzione sui
profili sociologici, economici, agricoli e demografici, senza addentrarsi più
di tanto nelle dinamiche politiche. All'autore interessa principalmente descrivere le
caratteristiche immutabili del popolo cinese, quelle che il socialismo non è
riuscito a scalfire: la curiosità verso gli stranieri, l’attenzione alle loro
esigenze e una sincera e squisita ospitalità.
Il libro ha un buon
ritmo, dettato dall’ansia del viaggiatore di uscire in fretta dai confini
cinesi, prima della scadenza del visto che avrebbe comportato l’inevitabile
fermo di polizia. Questo, tuttavia, è anche il punto debole del racconto, il
cui andamento è puntualmente rallentato dalla minuziosa descrizione degli
ostacoli burocratici relativi ai visti di ingresso e di uscita sul passaporto.
L’autore si dilunga su questi aspetti, sia perché hanno costituito uno dei
problemi più rilevanti del viaggio, sia per descrivere la rigidità dei
funzionari cinesi, sempre fedeli al motto “il regolamento è il regolamento”.
Alla lunga, però, le continue preoccupazioni di carattere amministrativo
rendono poco avvincente la lettura. Molto più interessanti
sono le pagine in cui l’autore si sofferma su alcuni aspetti delle culture
cinese e tibetana, come la cucina, la religione, l’arte e la letteratura.
Vivide e suggestive, poi, sono le descrizioni della natura, dei paesaggi e
delle strade al limite della praticabilità.
Il giudizio complessivo
sull’opera rimane un po’ sospeso. Personalmente mi aspettavo qualcosa di più,
soprattutto sul Tibet e le sue tradizioni. Il titolo è in questo senso
fuorviante, perché oltre due terzi della vicenda si svolgono in Cina e in Nepal;
inoltre, la maggior parte delle persone incontrate lungo la strada sono han
(l’etnia dominante in Cina) e non tibetane. La parola Himalaya richiama alla
mente di noi occidentali immagini diverse da quelle che il lettore troverà nel
libro; anziché sulle nevi perenni, si viene catapultati su strade fangose che
attraversano fiumi in piena, modesti insediamenti urbani di periferia e anonimi uffici governativi. Un romanzo-saggio che mi sento comunque di consigliare, almeno per avere
un’idea di quella Cina che (forse) non esiste più.
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