Quanti volti possiede la verità? A quante
voci può essere narrata? E soprattutto, quante sono le possibili versioni di
uno stesso avvenimento? Questi e altri sono gli interrogativi che il bel romanzo
di Ruggero Cappuccio ispira nel lettore. Una risposta univoca non è data, perché
forse la verità ama nascondersi, e ciò che chiamiamo realtà non è altro che una delle
possibili e soggettive rappresentazioni degli eventi del mondo fenomenico.
La notte dei due silenzi è un racconto labirintico
a più voci, con ben sette narratori che si avvicendano nell’esposizione dei
fatti. La vicenda si svolge nell’anno 1858, principalmente nel meraviglioso palazzo
di Conca dei Marini in cui vivono i due Principi Altomare. Alessandro, il
maggiore, è affetto da un insondabile male di vivere, che da anni lo costringe
al mutismo, alla vita meditabonda e solitaria di chi ha eretto un muro tra sé e
il consorzio umano, perché «intenebrito
nello sprezzo selvatico della sua solitudine al mondo». All’origine del suo
oscuro male vi è una dolorosa vicenda personale, la scomparsa della moglie
Chiara della Serena, ufficialmente morta di vaiolo nel convento dove si era
ritirata al comparire dei primi sintomi del morbo. L’infelice condizione di
Alessandro, che lo porta a trascurare gli affari di famiglia, muove a
compassione il fratello Eugenio. Quest’ultimo chiede soccorso al medico
francese Georges Bernard Descuret, un luminare di fama internazionale che tempo
prima aveva guarito la madre, affetta da una malattia nervosa. Contattato da
Eugenio per il tramite di un’accorata missiva, Descuret non esita a lasciare la
Francia per raggiungere di nuovo Conca dei Marini, da cui mancava da ben
diciotto anni. Sciogliere il groviglio annidatosi nell’animo e nella mente di
Alessandro diventa l’ossessione del medico francese, pienamente consapevole
della complessità del caso. Il male di Alessandro, infatti, non può essere semplicisticamente
spiegato come la reazione ad un lutto, ma ha radici più profonde, nella
connotazione stessa del suo essere, di un uomo cioè che è «un genio della malinconia creata, e che appunto di veleni malinconici
prodotti da lui nutriva tutto se stesso e tutto il suo corpo». Descuret
comprende che il male di Alessandro può essere conosciuto solo indagando sulla
passione che ha avvinto il nobiluomo e sua moglie Chiara. È lo stesso
Alessandro a spiegarlo, condensando in poche ma potenti parole la malia che la
donna produceva su di lui: «ella aveva il
potere di imporre presente il suo corpo nei momenti in cui, lontano da lei,
evocavo la sua ombra; aveva il potere di imporsi come un’ombra mentre il suo
corpo mi era innanzi tutto intero». Alessandro non ama Chiara, ma l’idea
che si è fatto di lei nei lunghi pomeriggi dell’adolescenza, popolati
soprattutto di silenzi, in cui il loro affetto è sbocciato. Questo è il tema
centrale del romanzo. Ruggero Cappuccio è abilissimo a districarsi in un
terreno scivoloso, nell’analisi dei sentimenti idealizzati, destinati a soccombere
alla prova del vero.
La vicenda di Alessandro e Chiara
travalica le mura del palazzo di Conca dei Marini, alimenta i pettegolezzi dei
salotti buoni, fino a diventare un vero e proprio caso di Stato. In
quest’ottica, il romanzo è un quadro fedele degli ultimi anni del Regno delle
Due Sicilie e soprattutto della sua aristocrazia molle e priva di iniziativa,
più interessata al chiacchiericcio di corte che agli affari di Stato. Il
cicaleccio arriva molto in alto, fino a giungere alle orecchie dello stesso Re
Ferdinando, che si interessa della vicenda dei due giovani e si prodiga per
chiarirla. E proprio intorno alla figura di Re Ferdinando sono costruite le più
belle pagine del romanzo. Cappuccio riabilita il personaggio storico,
tradizionalmente raffigurato come il malvagio “Re bomba”, l’insensibile e
dispotico monarca. Ne “La notte dei due silenzi”, invece, viene raffigurato
come un uomo intelligente e persino ironico, onusto del peso del governare e carico
di una sua particolarissima partecipazione alle vicende mondane. Mirabile il
suo discorso sul potere, talmente acuto che meriterebbe di essere trascritto
nei libri che raccontano la storia del Mezzogiorno. «Durante tutti questi anni», afferma il Re, «ho avuto due popoli da governare. Quel popolo che si chiama popolo e
quel popolo che si chiama nobiltà. […] Questi due popoli in realtà sono
quattro. Il popolo napoletano non è il popolo siciliano. La nobiltà napoletana
non è la nobiltà siciliana. […] Potrei dimostrarvi che questi due popoli sono
sei: la Chiesa della Capitale e quella di Sicilia sono gli altri due mondi con i
quali fare i conti. E se volessi divertirmi, vi direi che questi sei popoli
sono seicentosessantasei. Perché non c’è villaggio di Calabria o di Cilento che
non vanti un suo primato e un suo problema ritenuto urgentissimo e assoluto».
Schiacciato dal peso del potere e delle connesse responsabilità, Ferdinando
trova diletto soltanto nei carteggi di storie minime che solerti funzionari
scovano per lui negli archivi polverosi del Regno. E tra queste vicende
private, è proprio la storia di Chiara e Alessandro ad interessare
particolarmente il Sovrano, che avrà un ruolo decisivo nella sua conclusione.
Ruggero Cappuccio è principalmente un
drammaturgo; l’amore viscerale che nutre per il teatro e le sue dinamiche
traspare anche in questo libro. Non è un caso che due tra i momenti più felici
del romanzo abbiano una stretta attinenza con il teatro. Il primo è il breve intermezzo
che narra dello sbarco di Shakespeare a Napoli; si tratta di una vicenda di
fantasia, costruita però con grazia e sapienza. Il secondo momento è
rappresentato dalla “notte dei due silenzi”, in cui Alessandro e (il fantasma
di) Chiara si avvicendano sul palcoscenico della Terrazza dell’infinito a Villa
Cimbrone. Ed è davvero bizzarro che l’unico modo per conoscere la verità sia
l’organizzazione di una vera e propria rappresentazione scenica. Il paradosso
dunque si compie: il teatro, il luogo per eccellenza della fictio, finisce per trasformarsi nell’unico strumento possibile per
la rivelazione della verità. Cappuccio, però, non ha voluto portare alle
estreme conseguenze il paradosso, nella convinzione dell’insondabilità del reale.
Ed è così che, alla fine, il dubbio non viene sciolto e la verità, che per un
attimo sembrava far capolino oltre la tenda del palcoscenico, torna a
nascondersi.
Lo stile merita
una notazione particolare: colto, aulico e deliziosamente letterario, doti così
rare nel panorama della narrativa nazionale contemporanea. La scrittura è ricca
di raffinate descrizioni, densa di vivide suggestioni, a volte oscura e altre
pronta ad aprirsi in squarci di luce abbagliante. Nessuna parola è scritta a
caso, ma ciascuna ha un suo peso specifico, una giusta ponderazione di suoni e
profumi. Cappuccio scrive con mano ottocentesca, ma con tutta la sensibilità e
il tormento dello scrittore del Novecento: non deluderà quanti vanno alla ricerca
del puro piacere della lettura.
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