“Vogliamo il pane, ma
anche le rose” è il famoso slogan di uno sciopero delle lavoratrici del settore
tessile tenutosi nel 1912 a Lawrence, nel Massachussets. Con questa frase,
divenuta patrimonio dell’immaginario collettivo, si vuole indicare il diritto
delle donne lavoratrici, e più in generale della classe operaia, a beneficiare
di condizioni tali da consentire il pieno sviluppo della personalità umana: il
pane e le rose, il sostentamento materiale e il benessere psico-fisico. L’uomo
non è una macchina e il lavoro non deve servire alla mera sopravvivenza, ma
essere funzionale alla realizzazione completa della personalità. Per
comprendere quanto il principio abbia influenzato la storia moderna
dell’Occidente, si potrebbe azzardare che sia stato recepito anche dalla nostra
Assemblea costituente, e che riecheggi nei primi articoli della Carta
fondamentale (artt. 2, 3 e 36).
Ken Loach, da sempre
attento alle dinamiche sociali e alla difesa dei più deboli, ha deciso di
utilizzare lo slogan come titolo di uno dei suoi film più riusciti, Bread and
roses del 2000. La pellicola precede di un anno un altro importante lavoro, Paul,
Mick e gli altri, che affronta la condizione dei ferrovieri inglesi a seguito
della privatizzazione del trasporto su rotaia. Rispetto a quest’ultimo, in cui
prevale l’aspetto documentaristico,
Bread and roses si caratterizza per una maggiore attenzione verso l’intreccio
narrativo, con spunti che travalicano i confini del drammatico per lambire quelli
della commedia.
La vicenda è
ambientata negli Stati Uniti, tanto che si parla del primo film “americano” di
Loach. Protagonista è Maya, una ragazza messicana che riesce dopo anni di
sacrifici a raggiungere la sorella a Los Angeles, anche se da clandestina. La
speranza di una vita migliore, però, si scontra immediatamente con la dura
realtà. La società americana si mostra chiusa verso gli immigrati, quasi privi
di considerazione sociale e destinati ai lavori meno qualificati e scarsamente
tutelati. Maya trova impiego presso la ditta di pulizie dove è occupata la
sorella; il lavoro è duro e malpagato, oltre che privo delle più elementari
garanzie, quali le ferie e l’assistenza sanitaria. Gli addetti (che
nel doppiaggio italiano vengono chiamati poco elegantemente “pulitori”), quasi tutti latinos, sono sottoposti a turni massacranti, sotto lo
schiaffo dei caporali che minacciano e attuano licenziamenti per ogni minima
mancanza. Sarà grazie all’aiuto di uno scaltro sindacalista, interpretato da
Adrien Brody, che gli operai riusciranno a ottenere l’agognato riscatto e un
futuro migliore, in un finale dolceamaro di grande realismo e potenza emotiva.
Anche in questa
pellicola, Ken Loach mette in scena un cinema militante, impegnato a dare voce
agli ultimi, quelli a cui è tolto persino il diritto di gridare per far valere
i propri bisogni. Al di là dell’ingenua fiducia verso il movimento sindacale,
il messaggio che il regista inglese vuole lanciare è più generale, perché si
riferisce al significato stesso della lotta e della mobilitazione non violente,
considerate le uniche possibili strade per l’affrancamento dalla schiavitù del
bisogno. Non si può ridurre la pellicola a mero slogan; Ken Loach usa uno
slogan per lanciare un messaggio, ma lascia che siano i protagonisti a parlare,
ad esprimere ansie e bisogni dell’uomo comune, con un linguaggio semplice che
crea subito una forte empatia con lo spettatore.
Va infine evidenziata
la grande attualità del film, che affronta problematiche tuttora vive e, se
possibile, ancora più drammatiche rispetto a quindici anni fa. Alcune di queste
tematiche sono strettamente legate alla società statunitense, come l’assenza di
un’adeguata assistenza sanitaria pubblica o il tramonto del “sogno americano”.
Altre, invece, ci riguardano da vicino: il fenomeno dell’immigrazione e il
continuo svilimento del lavoro dipendente. Mai come oggi si sente la necessità
di affermare questo principio: il lavoro è un valore in sé, ma non fino al
punto di appiattire l’essere umano, di ridurlo a mera macchina, a misero
ingranaggio della produzione. Abbiamo bisogno del pane, ma anche delle rose:
come si può dare torto al rivoluzionario Loach?
Una scena del film
Anch’io sono d’accordo sulla grande attualità del film, soprattutto ora che l’ America si ritrova un presidente come Trump – democraticamente eletto dai suoi cittadini - poco sensibile al problema degli immigrati. Ma, dato per scontato che “il pane” è universalmente riconosciuto quale bisogno essenziale dell’’uomo, senza il quale non esiste alcuna possibilità di sopravvivenza, resta da capire quali debbano essere, nella società in cui viviamo, “le rose” per poter dare maggiore crescita culturale e giusto benessere psicologico alla classe lavoratrice. Se io mi guardo in giro, vedo che la gente si lascia irretire esclusivamente dalla tecnologia e dai suoi manufatti sempre più sofisticati. Se queste sono “le rose” a disposizione, ebbene devo dire che ho i miei dubbi sul fatto che possano fiorire.
RispondiEliminaQuelle di cui parli, più che rose, sono beni materiali, che il sistema vuole alla portata di tutti, probabilmente per controllarci meglio. Le rose di cui parla il film, e a cui si riferisce lo slogan, hanno una valenza spirituale ben più profonda. Condivido il tuo punto di vista. Grazie per il commento.
RispondiElimina