La Galleria d’Arte moderna di Roma Capitale non va confusa con la più
celebre Galleria Nazione di Arte moderna, che ha sede nell’immenso palazzo in
stile neoclassico di Viale delle belle arti. Il Museo comunale si trova invece
in Via Crispi 24, in un edificio recentemente ristrutturato, un tempo monastero
di clausura, adiacente la chiesa di S. Giuseppe a Capo le Case. Il grazioso
palazzetto passò nel 1879 in proprietà del Comune di Roma, per effetto del
trasferimento della comunità monastica, e negli anni ha avuto diverse
destinazioni, fino a quella attuale. L’antico chiostro è stato mantenuto e
costituisce un angolo suggestivo di meditazione e riposo, con vista sui tetti
di Roma.
Il percorso museale si sviluppa su tre livelli, anche se non tutte le
opere sono esposte. La collezione della Galleria d’Arte Moderna di Roma
Capitale è infatti costituita da oltre tremila opere, tra dipinti, sculture,
disegni e incisioni, che coprono il periodo che va dalla fine dell’Ottocento
agli Anni Quaranta del ventesimo secolo. La
grande mole di capolavori impone una necessaria turnazione nell’esposizione. Le
opere provengono sia da acquisti compiuti dal Comune presso rassegne
espositive, che da donazioni private.
Il Museo nacque ufficialmente nel 1925, anche se l’amministrazione
capitolina aveva iniziato ad effettuare i primi acquisti già alla fine del XIX
secolo; nel corso degli Anni Trenta tale attività ricevette un significativo
impulso, grazie alle Biennali e alle Quadriennali che furono organizzate presso
il Palazzo delle Esposizioni. Per comprendere la valentia della politica
culturale di quegli anni, basti pensare che «le
opere acquistate per la Galleria Comunale nelle edizioni delle Quadriennali tra
il 1931 e il 1943 furono ben trecentoquarantotto, un patrimonio estremamente
interessante che raccoglieva i nomi più significativi dell’arte italiana della
prima metà del Novecento, quali Carrà, de Chirico, Carena, Casorati,
Capogrossi, Scipione, Cavalli, Afro, Severini, Trombadori, Morandi e molti
altri che si andarono ad aggiungere alle opere di Carlandi, di Sartorio,
di Coleman, e in genere agli artisti de I XXV della Campagna Romana, oltre a un significativo
nucleo di opere della seconda metà dell’Ottocento. Per non dimenticare, poi, un
variegato fondo ascrivibile agli anni tra Simbolismo e Secessione e a
un nucleo altrettanto importante di opere futuriste degli anni Trenta» (dal
sito del Museo). Dopo la Guerra le vicende del fondo museale furono assai
travagliate, con diversi cambi di sede e addirittura lo smantellamento della
Gallleria, fino alla sua riapertura nel 1995.
Impossibile enumerare tutte le opere degne di menzione; per questo, mi
limiterò a descrivere le tre che più mi hanno colpito.
Il pastore, di Arturo Martini (1889-1947), è collocato in posizione
strategica, in fondo al corridoio che costeggia l’antico chiostro dell’ex
convento. Ad altezza naturale, appoggiato ad un bastone, fissa l’osservatore
con i suoi occhi senza pupille eppure pieni di espressività. È considerata una delle
opere più significative della scultura italiana del Novecento; realizzata in
materiale refrattario, venne esposta alla I Quadriennale romana del 1931,
ottenendo un prestigioso primo premio. È una figura senza tempo, ancestrale,
semplice ma carica di simbolismi religiosi ed esoterici. Martini voleva tornare
al primitivismo delle forme e per farlo aveva necessità di arretrare fino ad un
soggetto primigenio, vecchio quanto l’uomo e comune a tutti i popoli e a tutte
le latitudini. Nel suo atteggiamento meditabondo, reso ancora più intenso dal
materiale umile con cui è stato realizzato, il pastore è la sintesi di millenni
di storia, e al tempo stesso la conferma dell’immutabilità della sostanza più
profonda dell’essere umano. Una sostanza incoercibile, così simile al divino.
Altro capolavoro della Galleria è il Cardinal decano, ritratto del
porporato Vincenzo Vannutelli eseguito da Gino Bonichi, meglio noto come
Scipione (1904-1933), figura originalissima della pittura italiana del
Novecento. La grande tela è la summa della sua arte, il culmine delle visioni
di una Roma livida e sanguinolenta, corrotta e corrosa da un potere che si
ammanta di grazia e che ne regge le sorti da oltre due millenni. Il cardinale è
seduto in posa classica, il viso quasi caricaturale e le mani scheletriche e
vizze. Intorno a lui, angeli che non hanno niente di celestiale e una città
che sembra andare in fiamme assieme ai suoi simboli, come la cupola di San
Pietro che incombe sinistra alle spalle. Immobile, nonostante i suoi 94 anni,
il cardinal decano governa un mondo in sfacelo. Si dice che Scipione
fosse affascinato dall’anziano cardinale, dall’autorevolezza che promanava
dalla sua figura superba. L’opera, tuttavia, non ha intenti celebrativi: il
porporato è l’allegoria di un potere invincibile, che si è preservato
perpetrando negli anni gli stessi errori e le medesime ipocrisie.
Con L’angelo rapitore, di Gino Severini (1883-1966), si torna alla
centralità dei sentimenti umani. L’opera è dedicata al figlioletto, morto all’età
di sei anni. È lui il bambino tra le braccia dell’angelo che lo porta via,
rapendolo all’affetto dei suoi cari. Lo sguardo dell’angelo è immoto: non c’è
cattiveria nel suo gesto, solo consapevolezza dell’ineluttabilità di un fato di
cui è mero esecutore e da cui non può sottrarsi. Tiene con tenerezza il bimbo,
quasi volesse proteggerlo da un male più grande della stessa morte. Ai piedi
della tomba i giocattoli e i ricordi di una breve esistenza: un fucile a
piombini, un grammofono, una riproduzione della Torre Eiffel, una tromba, due
fotografie. La grandezza dell’opera sta nel fatto che l’artista è riuscito a
comunicare il dramma senza indulgere nel patetismo, il lutto senza cadere nel
lacrimevole. Sono le cose, più che le figure umane, a parlare; sono gli oggetti
che si caricano di una forza inaspettata e comunicano il messaggio. Il bimbo
fissa l’osservatore e alza una mano in un gesto di estremo saluto, pochi
istanti prima di essere portato via per sempre.