Confrontarsi con un classico del teatro contemporaneo, magari tentandone
una personale rielaborazione, non è mai facile. Se poi ci si accosta ad uno dei
testi più ostici e criptici del Novecento, il tentativo diventa un’impresa. Il
Laboratorio GirasoliTeatro, composto da attori non professionisti (ma bravissimi),
ha accettato la difficile sfida, rappresentando con successo l’opera inedita Aspettando
noi nell’intima e suggestiva cornice del Teatro Piccolo Re di Roma. Il testo,
liberamente tratto dal celeberrimo Aspettando Godot, è stato scritto da Helga
Dentale, con monologhi degli stessi attori del laboratorio teatrale. L'interpretazione è stata impeccabile e coinvolgente, capace di trasmettere agli spettatori tutta la potenza del testo e delle tematiche trattate.
Audace la scelta della
struttura dell’opera, che presenta almeno due punti di forza. In primo luogo,
vi è una riuscita commistione tra brani di Beckett – come gli
irresistibili botta e risposta tra Estragone e Vladimiro –, e monologhi
originali, che hanno la funzione di adattare il testo di partenza alla
sensibilità contemporanea, alle problematiche dei nostri giorni. In secondo
luogo, sorprende la scelta di non assegnare il ruolo di Estragone e Vladimiro a
due attori fissi, ma di farli interpretare a turno da tutti gli artisti della
compagnia, favorendo così l’immedesimazione tra lo spettatore e i personaggi
sul palco, come a voler dire che Gogo e Didi siamo tutti noi e che nessuno può
sentirsi escluso dai loro discorsi e dalle loro vicende.
Ma vi è di più: Aspettando
noi rovescia nel suo contrario il senso di straniamento di Aspettando Godot. Si
dice che il pubblico, uscendo dal teatro dopo aver assistito alle prime
rappresentazioni dell’opera di Beckett, si domandasse cosa mai avesse visto,
cercando di coglierne significati simbolici a valenza rassicurante. In questo
caso, invece, l’effetto è diametralmente opposto: si esce dal teatro colpiti
nel profondo, storditi ma al tempo stesso più consapevoli. Tutto questo perché
Aspettando noi parla dell’uomo contemporaneo e delle sue illusioni, seguendo sì
l’insegnamento del grande drammaturgo irlandese, ma al tempo stesso
discostandosene, tracciando una via autonoma che valga per questi nostri giorni
confusi. La guerra fredda è finita da un pezzo, le ideologie sono cadute
assieme ai muri e lo smarrimento del Novecento, da condizione transeunte mitigata
dai solidi appigli della dottrina, è divenuto regola che governa le nostre
esistenze. Non a caso, precarietà, paura e attesa di tempi migliori sono le
parole d’ordine del quotidiano. Ecco dunque che in Aspettando noi, ad
esempio, la dinamica capitalista/sfruttato del binomio Pozzo/Lucky è solo
accennata, mentre viene dato ampio risalto alla precarietà individuale, ai
bisogni dell’uomo considerato nella veste imposta di marito, moglie, madre,
bambino obbediente, studente o lavoratore. Se dunque la grandezza del testo di Beckett sta nella
impietosa ricognizione della natura umana, in Aspettando noi si cerca di andare
oltre: non vi è una passiva accettazione di tale condizione, quanto piuttosto la
spinta per trovare una direzione, per uscire dall’illusione dell’attesa.
L’attesa di Beckett è
una condizione perenne: si attende per aspettare, si aspetta per rimandare la
scelta sulla forma definitiva del proprio stato. Nello spettacolo del
Laboratorio GirasoliTeatro,
invece, l’attesa è solo il punto di partenza per una ricerca di sé che non può
essere rimandata. Nei monologhi, che si alternano efficacemente alle scene “beckettiane”,
si parla di libertà, di ribellione al conformismo, di opposizione al bigottismo
dominante, di ricerca di una dimensione che ci appartenga veramente. Ed è
questo l’aspetto che coglie nel segno, stimolando lo spettatore alla
riflessione: non si può vivere nell’attesa di qualcosa o di qualcuno, né si può
condurre un’esistenza lungo gli stringenti binari della morale borghese e delle
convenzioni sociali. La società è una gabbia e l’attesa di qualcosa di diverso
è come la fioca speranza della grazia per l’ergastolano. Aspettando noi ci
invita ad operare una scelta urgente, a non rimandare, perché la vita spesa nell’attesa
equivale a rinunciare a vivere.
Uscendo dal teatro,
riecheggiano allora nella mente le parole di una canzone scritta da Alice e
Francesco Messina che, citando Shakespeare, contiene un prezioso avvertimento: «Mi
svegliavi la notte dicendo anche spesso “To be or not to be”: hai scelto mai?».
La locandina dello spettacolo, con i nomi degli attori
Grazie per questa recensione che coglie pienamente il senso della nostra ricerca e del nostro lavoro.
RispondiEliminaGrazie Alfonso per questa bellissima recensione!
RispondiEliminaBellissima. Mi hai fatto venire molta voglia di vederlo!
RispondiEliminaGrazie a tutti voi!
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