C’è una bella maglietta che vendono sulla rete, che riproduce
semplicemente la scritta “Reid, Reid,
Hart & Gillespie”, formazione storica dei primi Jesus and Mary Chain,
quelli che esordirono su LP nel 1985 con Psychocandy.
I fratelli Jim e William Reid alle chitarre (distortissime) e alla voce, Douglas
Hart al basso e Bobby Gillespie dietro una minimale batteria, sono stati gli
alfieri di un nuovo suono, destinato a cambiare la storia della musica
contemporanea. Non erano propriamente degli sconosciuti, perché avevano alle
spalle qualche singolo; forse per questo motivo la prova del 33 giri era
particolarmente attesa, per verificare le capacità della band nella lunga
durata. “Vorrei che venisse ricordato
per sempre”, affermò Jim Reid in un’intervista, “che diventasse come quegli album che vendono sempre, al pari del primo
dei Velvet Underground”. La sua speranza si è trasformata in una felice
profezia, perché Psychocandy, a
distanza di oltre sei lustri, non solo continua a vendere, ma mantiene una
freschezza che pochi album degli anni Ottanta possono vantare.
Merito di una proposta musicale innovativa, che ha posto le basi dei
generi che saranno chiamati noise e shoegaze. Pur essendo dei precursori, i
JAMC non hanno mai nascosto, a partire da questo esordio, le loro fonti di ispirazione; sebbene
non possa essere definito come un lavoro puramente derivativo, Psychocandy è fortemente debitore dei Velvet
underground, in particolare del primo, omonimo e monumentale disco del 1967. Il
passo in avanti sta nel fatto che i JAMC hanno appreso la lezione psichedelica
della band di Lou Reed per trasformarla in qualcosa d’altro, in un suono
prossimo agli umori del post-punk,
più vicino al sentire di una generazione, quella degli anni Ottanta, che viveva
nello smarrimento completo a causa della perdita di ogni punto di riferimento,
in primis ideologico. I testi cupi, funerei e ossessivi, ricordano quelli dei
contemporanei Joy Division, anche se in Psychocandy
non è presente la nera disperazione intimista di Ian Curtis, quanto piuttosto
un canto arreso di più ampio respiro generazionale.
Il disco contiene tutti
gli elementi fondamentali della proposta musicale dei JAMC: un potentissimo
muro del suono retto da chitarre distorte e lancinanti, che sovente rallentano
in pause ipnotiche, con una batteria ridotta ai minimi termini ma onnipresente.
Si dice spesso, anche a sproposito, che un determinato disco ha avuto la
capacità di influenzare in maniera decisiva la produzione futura. Nel caso di Psychocandy non si tratta di una formula
di stile; la verità è che i JAMC hanno condizionato quantomeno le due generazioni
successive di musicisti, e il loro esordio ha rappresentato il vero e proprio
manuale del nuovo suono. Quattordici brani che sono altrettante potenziali hit, che spaziano da momenti più dilatati
dal sapore ipnotico (Just like honey,
Taste of cindy), a frammenti di
materia musicale in disturbante feedback (The
living end, Taste the floor), per
passare a scampoli di perversa dolcezza (Sowing
seeds), rinchiudendosi infine nelle cupe spirali di un cuore malato (My little underground, Something wrong).
Difficile dire quale pezzo spicchi sugli altri, impossibile preferirne
uno. Psychocandy è stato pensato,
concepito e suonato come un continuum,
espressione di uno stato d’animo più che insieme ragionato di canzoni. I
critici hanno poi cercato di dare un nome a questo umore, parlando di noise,
shoegaze e post-punk. Come al
solito, le etichette lasciano il tempo che trovano; è solo ascoltando questo
pugno di canzoni derelitte e lancinanti che si può capire quanto la sensibilità musicale contemporanea sia debitrice dei JAMC, anzi di Reid, Reid,
Hart & Gillespie.
Lavoro seminale, che ha dato il via a tutto quello che è venuto dopo. Eppure i JAMC sono sottovalutati..
RispondiEliminaJonathan