Berlino ha rappresentato, per gli anni Ottanta, quello che Londra è
stata per i Sessanta/Settanta: meta agognata di migliaia di giovani europei
inquieti e ribelli, alla ricerca di un Eden in cui ritrovare nuovi
stimoli, abbandonando un’esistenza altrimenti vacua e frustrante. Molti sono
tornati indietro delusi, altri si sono stabiliti definitivamente in Germania,
magari diventando un ingranaggio del sistema da cui avevano cercato di
fuggire. Per tanti, invece, l’esperienza è stata davvero rivoluzionaria,
perché ha avuto il potere di sprigionare energie creative latenti, o
semplicemente perché ha consentito loro di percorrere un sentiero diverso da
quello prestabilito. Massimo Zamboni, celebre chitarrista dei CCCP/CSI, rientra
proprio in quest’ultima categoria; partito in autostop nel 1981, a Berlino ha
vissuto l’estate che ha cambiato definitivamente la sua vita, tracciando il
primo solco di una strada maestra che sta ancora caparbiamente seguendo. Nessuna voce dentro (Einaudi, 2017) è il
resoconto di quell’irripetibile stagione, oltre ad essere un avvincente romanzo
di formazione. Può sembrare esagerato parlare di “romanzo di formazione” per un
libro che di fatto copre un arco temporale di pochi mesi; eppure, nessuna
definizione risulta così calzante. Il passaggio dalla molle vita della
provincia italiana alla frenetica metropoli tedesca ha infatti il sapore di una
rivelazione, destinata a trasformare in uomo il timido studente partito da
Reggio Emilia.
A Berlino, Zamboni ha modo di confrontarsi con una realtà realmente cosmopolita,
popolata di punk, fricchettoni
dell’ultima ora, rockabillies, mods e altre sottoculture. Ne esce il
ritratto di una generazione non arresa al grande riflusso ideale degli anni Ottanta,
ma che «sulla sfacciata presunzione punk
del “non c’è futuro”, fonda l’urgenza di “un ora e subito” che non si può più
rimandare». Oltre il Muro, un mondo alla rovescia: la tetra e austera DDR che
Zamboni non vedrà mai, se non attraverso i suoi simboli, siano essi paurosi
come i temibili Vopos, oppure allegri
come le colorate Trabant.
Il romanzo scorre via piacevolmente, grazie ad una scrittura snella,
debitrice della lezione del maestro Pier Vittorio Tondelli, citato in più
occasioni nel testo. Il punto forte della narrazione sta nel fatto che Zamboni non
ha rielaborato le vicende sotto la lente della maturità, ma è riuscito a
trasportare sulla carta le stesse sensazioni provate all’epoca, che risultano
vivide e presenti. Si potrebbe dire che il libro non ha il distacco emotivo
tipico del memoriale, ma mantiene l’urgenza espressiva del diario. L’autore
parla di vicende accadute trentacinque anni fa mantenendo voce e occhi di
quand’era ragazzo, trasmettendo al lettore una piacevole impressione di
vicinanza agli eventi narrati.
Un accenno meritano le divertenti pagine dedicate alla Pizzeria da
Salvo, «l’avamposto della meridionalità
più spermatica e terrosa» in cui il protagonista va a lavorare per potersi
pagare il soggiorno berlinese, assieme ad un «pugno di eroi in punta di diamante partiti a espugnare il settentrione».
È qui che Zamboni abbandona i panni del cronista per vestire quelli del
narratore puro, ricostruendo con tinte ironiche l’ambiente degli emigranti
italiani in Germania. Personaggi come il cuoco Vinicio o il capocameriere
‘Cenzo, con il suo irresistibile intercalare, sono destinati a rimanere a lungo
nella mente dei lettori, addirittura più dei Besetzer, i colorati abitanti delle case occupate.
Per chi è cresciuto a pane e CCCP/CSI, come il sottoscritto, il finale
contiene una piacevole ed emozionante sorpresa. Berlino è il luogo in cui
Massimo Zamboni incontra Giovanni (provate ad indovinarne il cognome!), dando
vita ad un duraturo sodalizio artistico che rivoluzionerà il modo di fare
musica in Italia. Senza voler rivelare troppo, basta riportare le sentite
parole dell’autore, che hanno tutto il sapore del riscatto e di una nuova
consapevolezza.
«Poi accade qualcosa. Qualcosa che cambierà tutto, e lo cambierà per sempre, mi andrà a travolgere e disordinare. Qualcosa che mi chiede di seguire il richiamo di un indistinto, del tutto vago, possibile cambiamento che aspettavo e forse mi aspettava dall’inizio del viaggio; dei viaggi, forse, dei tanti viaggi che in ultima analisi erano stati soltanto bozze, schizzi preparatori.»
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