Nei romanzi dell’ungherese Sándor Marai
(1900-1989) ricorre spesso il tema dell’attesa di un destino che deve compiersi:
è così nel celebre Le braci, nonché
ne L’eredità di Eszter. L’ineluttabilità
del fato non è tuttavia percepita con fastidio dai personaggi; essi piuttosto
la vivono con rassegnazione, anzi con una quieta accettazione, perché a nulla
varrebbe opporsi. «Ho fatto di tutto per
mettermi in salvo, ma il nemico continuava a seguirmi. Ormai so che non poteva
agire diversamente: siamo legati ai nostri nemici, che a loro volta non sono in
grado di sfuggirci», afferma Eszter nel preambolo delle sue memorie.
Eszter abita nella casa che le ha lasciato il
padre, assieme all’anziana parente Nuna; le due donne vivono modestamente, ma
con dignità, grazie ai pochi risparmi e alla cura del piccolo orto. L’esistenza
di Eszter è monotona, i giorni si accumulano l'uno dopo l’altro senza particolari
variazioni sul tema; l’unico uomo che abbia mai amato, l’infido e menzognero
Lajos, è sparito da vent’anni. Per quanto la loro storia d’amore sia stata
tormentata e triste, lei sa che «quel
senso di allarme continuo» provato a causa di Lajos è stato l’unico vero significato della sua vita. Il tempo ha
ricucito le ferite, restituendole la serenità in cambio di una completa abulia
affettiva. Un giorno però Lajos annuncia con una lettera il suo ritorno. Dalla
missiva sembrerebbe animato da buone intenzioni, ma Eszter sa che tornerà
solamente per riprendersi quel poco che non è ancora riuscito a sottrarle.
Lajos ci viene presentato come un uomo che «si era fermato a un certo stadio del suo
sviluppo, era diventato vecchio senza mai perdere quello spirito goliardico da
studente di legge, che non è particolarmente rischioso e non porta – ecco la
cosa più triste – da nessuna parte». Il tempo ha imbiancato i suoi capelli
e ha disegnato sottili rughe sul suo volto, ma non è riuscito a cambiarlo nel
profondo. Egli è rimasto «un genio della
menzogna», pronto a sacrificare tutto e tutti in nome di un’indefinita
smania di vivere, che non ha altro scopo se non quello di distruggere gli altri
per alimentare se stessa. Eszter ne è pienamente consapevole, tanto che arriva
ad affermare che «la tua vita è stata
un’unica grande menzogna; non potrò credere neanche alla tua morte, perché
anche quella sarà un inganno». Eppure, la coscienza dell’imbroglio non
riuscirà a salvarla da un destino ampiamente preveduto, ma ineluttabile. Eszter
accetta ciò che il fato le riserva e si lascia docilmente spogliare di ogni
avere e depauperare di ogni speranza; tuttavia, non per questo possiamo
definirla sciocca. Marai costruisce Eszter come un’eroina stanca, saggia nella
misura in cui non oppone un’inutile resistenza a quanto le è stato riservato da
una forza superiore. Resta da comprendere se tale forza abbia o meno
una valenza religiosa, ma io propenderei per una risposta negativa. Forse per
Marai è la passione a governare le nostre esistenze, ma anche questa soluzione
rimane dubbia. È davvero amore quello che venti anni prima ha avvinto Lajos e Eszter?
Oppure è solo una meschina e umana macchinazione, creata dal deus ex machina Lajos, vero e proprio
prototipo del mascalzone e del bugiardo? Il segreto non è svelato, tutto rimane
confinato nel rapporto tra i due, al punto che il dubbio rimane anche una
volta chiuso il romanzo. L’eredità di
Eszter lascia addosso tanta amarezza, perché ci fa intendere quanto
possano essere spietati e cedevoli i rapporti umani.
Marai è considerato uno dei grandi della
letteratura mitteleuropea; nonostante abbia vissuto a lungo a Napoli e a
Salerno, la sua fama in Italia è relativamente recente, grazie alla casa
editrice Adelphi che ne ha tradotto e pubblicato le opere dopo la morte. Le sue
doti di scrittore emergono con limpidezza ne
L’eredità di Eszter, che oltre ad essere animato da una sotterranea
profondità filosofica, brilla per la purezza dello stile e il piacere della
lettura.
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