Parlare dei The Sound significa inevitabilmente tirare fuori la solita
favola triste della band sfortunata, ignorata all’epoca e riscoperta postuma,
che ha raccolto molto meno di quanto avrebbe meritato. Facile allora inquadrare
il gruppo tra i grandi sconosciuti, fino ad elevarlo tra i migliori in assoluto,
come pure fanno alcuni. Più semplicemente, nella musica come nell’arte in
generale, la fama non sempre arride ai più bravi ed è spesso una questione di
contingenze. Come ho scritto in un precedente articolo, rimane certamente un
mistero la ragione per cui certi validi gruppi siano
destinati a non lasciare alcuna traccia nella memoria musicale collettiva, mentre
invece tanti musicisti non propriamente all’altezza siano invece passati ai
posteri e abbiano goduto del beneficio di vedere i propri dischi ristampati in
continuazione. Indagare questo mistero non avrebbe senso, né è possibile
trovare una soluzione. È allora sufficiente affermare che i The Sound sono
stati un grande gruppo di piccolo culto. E non è poco.
Adrian Borland, ragazzo dall’espressione sorniona e
dagli occhi spenti, ne era il fondatore e leader. Nell’aspetto non rispecchiava
i canoni classici della rockstar ma,
al pari di molti e più famosi di lui, era affetto da un incurabile male di
vivere, che l'ha portato a morire suicida sotto un treno a soli 42 anni, il 26
aprile del 1999. «Un figlio amato e un talentuoso cantautore e chitarrista», recita il suo epitaffio. The Sound è stata la sua creatura. Il gruppo, inquadrabile
nell’area del post punk – new wave,
ha pubblicato cinque dischi in studio tra il 1980 e il 1987 prima di
sciogliersi, oltre ad una manciata di live.
Sembrerebbe che proprio le crisi depressive del leader, oltre agli scarsi
riscontri commerciali, siano state le cause principali dello scioglimento,
avvenuto nel 1988. Una storia che ricorda in parte quella dei coevi e universalmente noti Joy Division. Completavano la formazione Graham Green al
basso, Colvin “Max” Mayers alle tastiere e l’occhialuto Mike Dudley alla
batteria. Per chi volesse vederli dal vivo, consiglio questa splendida
testimonianza su You Tube.
From the
lions mouth è il loro secondo album (1981),
che segue di un anno l’esordio di Jeopardy,
sempre per la Korova Records. Mentre il loro primo disco è intriso dei sapori
del punk morente, From the lions mouth
si avvicina invece alla new wave,
risultando un deciso passo in avanti e, al tempo stesso, un disco ancora fresco
a distanza di trentasei anni. La 1972
Label, casa discografica americana, ne ha curato una recente ristampa in
vinile, che riporta anche i cupi testi e una fotografia del gruppo. Suggestiva
la copertina, che riproduce un famoso dipinto del pittore inglese Briton
Riviere, intitolato “Daniele nella fossa dei leoni”. Viene dunque da chiedersi
quali fossero questi leoni da cui Adrian Borland si sentiva oppresso: potrebbero
essere i vincoli imposti dalla società, o più semplicemente le spire soffocanti
del sentimento in perenne contrasto con la volontà.
È un disco che si esalta nei felici ricami delle
tastiere, che si intrecciano in continuazione con i riff selvaggi della chitarra di Borland; onnipresente il basso, che
disegna la strada maestra dalla prima all’ultima traccia. Si apre con l’inconfondibile
giro di basso di Winning, a cui dopo
pochi secondi si aggiunge il ripetitivo e psichedelico tappeto delle tastiere.
A sorpresa, la canzone parla di riscatto, della capacità di liberarsi dalle
catene e di ripartire quando si è toccato il fondo: «I was going to drown, then I started swimming. / I was going down,
then I started winning». Segue la corposa Sense of purpose, atipica canzone d’amore in cui Borland chiede ad
una lei (o forse a se stesso) di cercare un nuovo senso all’irrequietezza quotidiana.
Ancora una volta sono le tastiere e il basso a dominare la scena, sovrastati
nel finale da un assolo di chitarra. Contact
the fact si avvale invece di un felice ritornello, per poi dilatarsi in una
coda strumentale che rappresenta uno dei momenti più felici dell’album. La
successiva Skeletons è invece un classico
brano dark-wave, sostenuto dal basso e con un testo cupo; nel finale la voce di
Borland si smarrisce in suoni appena udibili, mentre la musica si frammenta in
schegge impazzite. Chiude la facciata la complessa Judgement, in cui il mostro assume il volto silenzioso e immoto di
Dio («he’s so still, silent, motionless»),
visto nella sua veste di sommo e implacabile giudice. Anche qui la coda
strumentale è qualcosa di spettacolare: un meraviglioso amplesso di chitarra e
tastiere, come una scala che in poco meno di un minuto lambisce il paradiso e
ricade a terra.
Il lato B non conosce cali d’ispirazione. Fatal flaw è una canzone sull’incapacità di amare: «sense of distance when you stand close to me / I’ve a strange
disappearance […] / you can’t reach me anymore». La duplice natura dell’animo umano è il tema centrale
anche della successiva Possession,
con un basso che pompa a livelli altissimi e la voce di Borland che si alza di intensità
e di volume. Spinge invece sull’acceleratore The fire, la mia preferita; questo è punk, signore e signori, forse
un po’ ammansito dalle tastiere, ma che nel finale esplode in un assolo
chitarristico incendiario. Silent air è
invece un riuscito intermezzo di dolce malinconia alla U2, che lascia il passo
alla conclusiva New dark age. L’ovvio,
inevitabile punto di riferimento per questo brano sono i Joy Division; in
effetti il pessimismo non lascia scampo, perché Borland ci porta per mano in un
universo post-atomico, dove di umano è rimasto poco e ciò che rimane si prepara
all’avvento di una “nuova età oscura”. La voce di Adrian galleggia sopra
rimasugli dilatati di batteria e basso, fino ad un finale incisivo e
sorprendente, con la chitarra a spingere come a voler uscire fuori da questa new dark age.
Dovessi partire domattina per un’isola deserta e
avessi la possibilità di portarmi una manciata di dischi, From the lions mouth non potrebbe mancare. Ascoltare per credere.
Una bellissima recensione, complimenti!
RispondiEliminaGrazie mille Valeria per avermi letto e per i complimenti. Felice di sapere che altre persone amino e ricordino Adrian & The Sound.
RispondiEliminaUno dei più bei dischi di new-wave/post punk dell'epoca. Li vidi a Roma tanti anni fa in Via Nomentana in un posto di cui non ricordo il nome.Adesso ci dovrebbe essere una sala bingo. Ricordo lo scontro tra il povero Borland ed uno del pubblico, che continuava a sputare pensando di essere a Londra ne l 1975 ad un concerto dei sex pistols...Grande gruppo comunque.
RispondiEliminaEra il teatro Espero
EliminaGrazie per la tua testimonianza. Non sapevo neppure avessero suonato a Roma. Il disco, come dici tu, é grandissimo.
RispondiEliminaSono un grande fan degli Interpol ed ho scoperto questo gruppo da poco ed è stata una rivelazione. Questi due album sono fantastici senza mezzi termini. Ritengo Borland un grande cantante. Un intensità unita alla semplicità che me lo fa apprezzare piu di molti blasonati colleghi come i vari Murphy bravissimo ma anche troppo teatrale.
RispondiEliminaMi unisco a chi prova dispiacere per la triste sorte di questo grande gruppo.
Davide
Sono d'accordo con te, Davide. Grande umiltà e straordinaria intensità, unite, a mio avviso, ad una capacità fuori dal comune nel "songwriting". Grazie per la visita ed il commento.
RispondiEliminaBella recensione per un gruppo che ho amato e seguito devotamente dall'uscita di Jeopardy fino alla fine, una vita fa. Grande disco, tutti splendidi pezzi, mio preferito Fatal Flaw
RispondiEliminaGrazie mille per il commento. Fatal flaw è un gran pezzo, ma il mio preferito è Sense of purpose. In ogni caso, come dici tu, sono tutti splendidi pezzi.
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