Falene, il terzo
disco da solista di gianCarlo Onorato, è un lavoro che entra di diritto tra le
cose migliori della canzone d’autore italiana. È stato pubblicato nel 2004, a
sei anni esatti di distanza da Io sono l’angelo,
segno che a Onorato piace fare le cose sul serio. Ogni suo disco è
meditato, limato a perfezione, curato in ogni dettaglio. D’altronde, anche l’ultimo
lavoro, Quantum (2017), segue di
sette anni il precedente. Già questo aspetto ci dimostra quanto l’artista lombardo
sia lontano dai canoni imperanti dello show
business, che impongono ai loro musicisti-marionette di pubblicare un disco
all’anno, a tutto detrimento della qualità.
Onorato è un indipendente e può dunque beneficiare della massima libertà
creativa. Falene è l’emblema
di uno stile personale, che fonde egregiamente la scuola cantautoriale italiana
con il gusto della classica ballata rock, mai sopra le righe. Si pensi, a
titolo di esempio, alla Canzone dell’oscurità,
che ricorda le cose migliori di De Andrè. Onorato rifugge però dalla polemica
politica o dall’impegno, per rifugiarsi in canzoni intime, che trovano forza
espressiva in un vago senso di evanescenza, dando luogo ad un avvincente
paradosso. Si pensi alla meravigliosa La
sete, che inizia lieve per poi esplodere in un’abbacinante elettricità.
Oppure, si ascolti la conclusiva Un
morbido silenzio, sempre in bilico tra armonia e vie di fuga parallele.
Sono tre le componenti
fondamentali di Falene. La prima è la
melodia: Onorato costruisce le sue canzoni come ragnatele, con una trama
sottile eppure resistente, che cattura l’ascoltatore dalle prime note e non lo
lascia più andare. È la “strategia del ragno”, per usare il titolo di un famoso
film di Bertolucci. La strumentazione impiegata è quanto mai variegata:
chitarre dolci e distorte, tappeti di tastiere, la fisarmonica, gli archi, delicate
voci femminili che sembrano parlarci da altri mondi. La seconda componente è l’interpretazione:
la voce di Onorato è calda e avvolgente, scorteccia le parole riducendole all’essenziale,
le lima infondendo a ciascuna un preciso significato. Infine, abbiamo i
testi. Con una parola abusata parlerei di poesie, perché davvero non saprei
come altrimenti definirli. Emblema della sua scrittura è probabilmente il testo
di Androide Mirna. Parla di un artista
che, stanco di inseguire la bellezza senza riuscire a trovarla, costruisce un
automa a cui dà il nome di Mirna, per rappresentare il suo personale
ideale di amore. La tematica non è nuova nell’arte; in letteratura, ad esempio,
è stata trattata da E.T.A. Hoffmann. Onorato la mette in una canzone, tratteggiando
in pochi significativi versi il rapporto tra l’inventore e l’androide,
descrivendo lo stupore di quest’ultima di essere viva e la volontà di gioire e
soffrire al pari di un umano.
Impossibile preferire
una canzone alle altre. Il livello è altissimo e non conosce cali di
ispirazione: lasciano il segno specialmente l’iniziale Le bisce d’acqua, Il bene e il nulla, la drammatica Pace di guerra, l’intreccio di chitarra
elettrica e piano di Boncourage, oltre
alle già citate La sete, Androide Mirna e
Un morbido silenzio. Una menzione a
parte merita la Ballata dell’estate
sfinita, che sarebbe stata un’incrollabile hit se solo fosse stata adeguatamente divulgata. Anche negli
episodi meno fortunati, come The
bossanova sweet menage o Mia neve, si
sente un’attenzione al perfetto equilibrio tra parole e musica.
Cerco sempre di
mantenere una posizione il più possibile obiettiva quando recensisco un disco.
Stavolta, però, sento di dover dare un dieci, perché nulla è superfluo in
questo lavoro di Onorato, che immerge l’ascoltatore nel suono caldo di un
morbido silenzio. Consiglio l’ascolto in cuffia, che rende giustizia al lavoro
di incisione.
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