Vengono chiamati I.M.I. dalla storiografia ufficiale i soldati italiani catturati dagli invasori tedeschi e deportati in Germania nei campi
di prigionia e internamento, subito dopo l’armistizio dell’otto settembre
1943. I.M.I. è l’acronimo di Internati Militari Italiani, una formula senza
significato secondo le norme del diritto internazionale; il Governo tedesco,
infatti, privò i soldati italiani catturati dello status di prigioniero di
guerra, che avrebbe loro garantito la tutela della Croce Rossa e del diritto
internazionale. Questi ragazzi, spesso appena arruolati, vennero
posti di fronte ad una scelta: combattere accanto a nazisti e fascisti, oppure
subire la dura prigionia e il lavoro coatto. In seicentomila, la grandissima
maggioranza, non ebbero dubbi e scelsero la schiavitù piuttosto che difendere un’ideologia
aberrante. Diventarono così gli “schiavi di Hitler”, lavoratori coatti per
dodici ore al giorno nei campi di internamento.
La motivazione della Medaglia al Valor Militare all’Internato Ignoto
rende bene l’idea delle condizioni in cui vissero gli I.M.I., «internati in campi di concentramento in condizioni di vita inumane,
sottoposti a torture di ogni sorta, a lusinghe per convincerli a collaborare
con il nemico, non cedettero mai, non ebbero incertezze, non scesero a
compromesso alcuno; per rimanere fedeli all’onore di militari e di uomini,
scelsero eroicamente la terribile lenta agonia di fame, di stenti, di
inenarrabili sofferenze fisiche e soprattutto morali. Mai vinti e sempre
coraggiosamente determinati, non vennero meno ai loro doveri nella
consapevolezza che solo così la Patria un giorno avrebbe riacquistato la
propria dignità di nazione libera».
Per troppi anni un velo di colpevole dimenticanza ha circondato la
vicenda dei cosiddetti I.M.I., che non hanno ricevuto il riconoscimento che
avrebbero meritato. Un po’ alla volta questo velo è stato squarciato ed è stato
finalmente riconosciuto il valore di quel “no”, equivalente ad un vero e proprio
atto di Resistenza. La Liberazione non è dunque merito soltanto dei partigiani
e degli Alleati, ma anche di altri seicentomila uomini che, astenendosi dal
combattere al fianco dei tedeschi, e subendo per questo la fame, la schiavitù e
finanche la morte, hanno contribuito a redimere il Paese.
La legge n. 296/2006, sia pure tardivamente, ha riconosciuto un’onorificenza
ai seicentomila: la Medaglia d’Onore ai cittadini italiani deportati e
internati nei lager nazisti. Coniata in bronzo dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello
Stato per conto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, riporta sul rovescio un cerchio di filo spinato spezzato nella parte superiore,
che racchiude il nominativo dell’insignito. Gli I.M.I. ancora in vita, ma anche
i loro congiunti, possono richiederla seguendo la procedura disponibile
cliccando qui.
Mio nonno era uno di quei seicentomila e mercoledì 11 aprile, nel corso
di una toccante cerimonia in Prefettura a Roma, ha ottenuto il
riconoscimento che l’avrebbe riempito di orgoglio se fosse stato ancora in
vita. La sua storia è simile a quella di tanti altri: venne catturato dopo l’otto
settembre in una caserma del Nord Italia e, per essersi rifiutato di combattere
assieme ai tedeschi, fu internato nel campo di prigionia di Neubrandenburg,
in cui rimase fino alla liberazione da parte dei Sovietici. Raccontava con
dolore delle baracche in cui sopravviveva al gelo assieme ad altri internati,
delle bucce di patate che spesso costituivano il misero pasto della giornata, delle
umiliazioni subite, delle malattie, della morte dilagante di tanti amici e
commilitoni, delle durissime giornate di lavoro forzato. Tutto questo per un "no", che è stato un vero atto di resistenza non armata. A lui e agli altri
seicentomila I.M.I. è dedicato questo mio modesto contributo.
Dritto e rovescio della Medaglia d'Onore I.M.I. conferita a mio nonno
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