L’intenso
e divertente romanzo di Sillitoe è debitore di un capolavoro della letteratura
inglese del Novecento: Fiorirà
l’aspidistra di George Orwell. Non è dunque un caso che la parola
“aspidistra” ricorra per tre volte nelle primissime pagine del romanzo, senza
più essere menzionata nel prosieguo. Come ho scritto in un’altra recensione,
l’aspidistra è una pianta dalle foglie a forma di scudo, che decora le case
della piccola borghesia inglese. In tutte le case britanniche tradizionali c’è una di queste piante, così diffuse per la longevità e la
straordinaria capacità di adattarsi ad ogni clima, di sopravvivere all’incuria
umana, di crescere dove neppure il più esile filo d’erba riuscirebbe ad andare
avanti. Più che il simbolo del benessere borghese, l’aspidistra è il simulacro
di un’esistenza solo apparentemente agiata, il fallace segno di chi crede di “avercela
fatta” e la espone alle finestre come una bandiera.
Il romanzo (prima edizione 1958) è ambientato nella città
industriale di Nottingham nei primi anni Cinquanta del Novecento, epoca di
crescita e benessere per l’Inghilterra, dopo le devastazioni della guerra. L’ambientazione
è quella dei quartieri popolari che proliferano come funghi intorno
alle fabbriche; sono sobborghi di semplici case a schiera in mattoni rossi, tutte
uguali, in cui vive un’umanità misera ma accecata dal sogno di un benessere che
ha la forma e il suono di una televisione in bianco e nero. Il libro è un
fedele ritratto della schietta working
class inglese, di fatto lo stesso brodo di cultura del punk a metà degli
anni Settanta. Sillitoe fa un ottimo lavoro nel ricostruire quel mondo che
conosceva così bene, caratterizzato da uno slang
particolare e da riti sempiterni, come il tè pomeridiano o il campionato di
calcio il sabato. Il protagonista, Arthur Seaton, ha ventitre anni ed è
impiegato come tornitore in una fabbrica di biciclette. Del tutto privo di
coscienza politica e di classe, lavora a cottimo al solo scopo di poter
acquistare birra, vestiti e sigarette. Pescare, ubriacarsi, menare le mani e
andare con le donne sposate sono gli unici obiettivi della sua esistenza. Si ammazza
tutta la settimana al tornio, per inebriarsi di quelle poche ore di apparente
libertà del sabato sera.
Se è vero che Fiorirà l’aspidistra è l’inevitabile punto di riferimento, è
altrettanto indiscutibile che vi sono profonde differenze tra i due libri. La
prima, fondamentale, è rappresentata dal rapporto dei protagonisti con il
denaro: mentre l’orwelliano Gordon lo odia, considerandolo la quintessenza di
tutti i mali, Arthur lo brama e lo venera, quale strumento per soddisfare ogni
suo desiderio. E ancora, mentre Gordon è un vero e proprio outsider, Arthur ha l’apparenza del vincente, amato dalle donne e
rispettato dagli uomini. Diverso è anche il senso di ribellione nei confronti
della società. La ribellione di Gordon è strutturata e coerente, frutto delle
letture e di un’analisi non superficiale del mondo che lo circonda, perché egli
è prima di tutto un intellettuale. La disubbidienza di Arthur, invece, è
conseguenza dell’esuberanza giovanile, di un vago anarchismo che raramente
sfocia in considerazioni più profonde. Bere a fiumi e portarsi a letto le donne
altrui è il suo unico credo, che scandalizza i benpensanti ma non ha una reale
incidenza sui meccanismi della società. Il vero punto di contatto tra i due
romanzi è nell’epilogo: la rivolta di Gordon e Arthur è destinata al
fallimento, e alla fine entrambi, più o meno consapevolmente, verranno
soffocati dalle spire dell’esistenza decorosa piccolo-borghese che avevano
sempre detestato. La riflessione finale di Arthur è in proposito illuminante.
«Tutti a questo mondo venivano catturati, in un modo o in un altro, e quelli che ancora non erano stati catturati lo sarebbero stati molto presto. Appena nato venivi catturato dall’aria fresca contro cui avevi urlato nel momento stesso in cui eri venuto al mondo. Poi eri catturato da una fabbrica e incatenato a una macchina; più tardi era una donna a prenderti all’amo. Eri proprio come un pesce: nuotavi libero qua e là pensando a come era bello stare in pace e fare tutto quello che ti piaceva senza preoccuparti di nessuno, e poi, improvvisamente, zac!, il grande amo ti si conficcava in bocca e venivi catturato.»La metafora del pesce all’amo è il messaggio allarmante che il romanzo lancia: possiamo soltanto illuderci di sfuggire alle catene che la società impone, siano esse dure come quelle della fabbrica o apparentemente dolci come nel matrimonio. Ed ecco il perché della citazione dei Pink Floyd nel titolo della recensione: siamo solo anime perse che nuotano in un acquario, compiendo sempre gli stessi giri.
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