«Soprattutto lo confortava la
coscienza di aver tenuto fede alle proprie idee». Così si
conclude il breve ma intenso romanzo di Carlo Cassola, pubblicato nel 1978.
Tito, il protagonista, alla fine della vicenda può tirare un sospiro di
sollievo, perché ancora una volta la sorte è stata benigna con lui, consentendogli
di maritare la figlia e (soprattutto) di non tradire i propri ideali. È lui l’uomo
solo del titolo. Tito è solo in famiglia, nel paese e negli ideali. Solo in
famiglia, perché la moglie e la figlia lo trattano come una bestia rara, all’apparenza
spaventosa ma tutto sommato innocua e domabile. È solo nel paese, perché per le
sue idee anarchiche ha subito il carcere, le perquisizioni e infine l’isolamento.
È solo negli ideali, perché con l’avvento del regime fascista è stato chiuso il
circolo libertario Germinal e tutti i compagni hanno tradito i
vecchi ideali in nome della convenienza o del quieto vivere. Ha solo tre amici,
con cui si vede la domenica: l’avvocato repubblicano Corsi, un barbiere
comunista e un sarto socialista. Separati negli ideali politici, li unisce l’opposizione
al fascismo e la circostanza di essere gli unici ostili al regime nel
piccolo comune del grossetano in cui vivono. Sono gli anni della guerra in
Etiopia e dell’Impero, gli anni del maggiore consenso del regime. Dunque sono quattro
gli uomini soli del romanzo, più simili a quattro Don Chisciotte che a veri e
propri rivoluzionari. La loro ribellione si traduce nelle lunghe chiacchierate,
che spesso sfociano in divertenti alterchi su questioni prettamente ideologiche,
su quanto fosse democratico lo Stato liberale e su quale debba essere la
migliore forma di governo per il futuro. Solo Tito, da buon anarchico, se ne
tira fuori: «la sua idea era che il mondo
di prima non era migliore di questo. Era lo stesso un mondo di violenze e di
sopraffazioni. Solo, in modo più nascosto. Adesso era come se tutte quelle
iniquità fossero venute alla luce». I fascisti lasciano fare i quattro
amici, consapevoli di non poter temere nulla dalle chiacchiere inconcludenti.
Intanto la vita di paese va avanti. Il caffè è il centro del potere,
dove si riuniscono fascisti e simpatizzanti, convinti o semplici opportunisti. Il villaggio
è un microcosmo che ricalca la situazione complessiva dell’Italia di quegli
anni: i fascisti in piazza, i pochi oppositori confinati, le masse indifferenti
alle sorti del Paese. Di fatto, il “fascismo
come autobiografia di una nazione” di cui parlava Gobetti. Tra gli
opportunisti che fanno affari col regime c’è anche Agenore, il quinto uomo solo
del romanzo. Nato povero, ha realizzato sconfinate ricchezze grazie al duro
lavoro e alle mazzette. Ungere i potenti di turno e non inimicarsi nessuno pur
di preservare gli affari è il suo unico credo. Un tempo amico di Tito, ne è l’esatto
opposto; il fato, però, ha in serbo per i due ex amici un tiro mancino. Il
figlio di Agenore e la figlia di Tito vogliono sposarsi, ma Agenore non può
tollerare che il terzogenito impalmi la figlia di un sovversivo. Nasce
così il conflitto ideologico che attraversa sottilmente le pagine del romanzo:
è possibile rinunciare ai propri ideali per il bene di una figlia? Amore o
anarchia, oppure è possibile salvarli entrambi? La conclusione sarà inaspettata
non tanto nell’esito, quanto piuttosto nella spiegazione. A prevalere non saranno né
l’amore né l’ideale: vinceranno l’interesse e la sensualità, tra le
manifestazioni più intense dell’essere umano.
Tito sarà felice del risultato conseguito, ma non comprenderà mai il
sottile meccanismo che ne ha governato gli esiti. Candido e disinteressato, è
un personaggio destinato a rimanere a lungo nella mente del lettore. Pur con
tutta la simpatia possibile che dobbiamo tributare a questo «maniaco della politica» (come lo
definisce l’avvocato Corsi), non possiamo dimenticarne i limiti. Guidato da una
fiducia cieca verso le persone, dà la colpa delle storture del mondo all’organizzazione
sociale, ma non arriva a comprendere quanto male possa allignare nell’animo
umano. Tito non sa convincersi che esiste una cattiveria in natura e anche per
questo è destinato al fallimento, a perseguire indefessamente un ideale a cui
rimane fedele pur sapendolo irrealizzabile.
Il romanzo di Cassola si legge tutto d’un fiato: scritto con uno stile
essenziale, è ricco di piacevoli dialoghi e ricostruisce abilmente la realtà
della provincia italiana negli anni tra le due guerre mondiali. Il regime è più
che altro una cornice, tanto che i fascisti non appaiono mai in carne e ossa,
ma vengono solo evocati dai protagonisti. Cassola è riuscito a dare al libro una
direzione ben precisa, che trascende il mero impegno civile, per concentrarsi
sulla sfera intima dei suoi protagonisti, sull’irrisolto conflitto tra
sentimento e ideale, tra le esigenze del mondo concreto e le belle ma utopistiche
costruzioni della mente.
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