20 giugno 2018

Borland & The Sound all'esame di maturità: "All fall down"

All fall down sconta il pegno di essere il terzo album, quello che di solito viene considerato il lavoro della maturità, su cui sono maggiormente puntati gli occhi della critica. Se il primo disco è guardato con una certa indulgenza, mentre il secondo serve per aggiustare la mira, il terzo è sempre visto come la prova del nove. Dai The Sound era lecito aspettarsi un ulteriore salto di qualità, dopo l’iniziale Jeopardy (1980) e il meraviglioso From the lions mouth (1981). È stato forse questo pregiudizio a condizionare i pareri, non sempre lusinghieri, sul terzo lavoro del 1982. In effetti al primo ascolto parrebbe confermata l’opinione di chi lo considera un passo indietro, la parentesi meno eccitante di una discografia breve ma eccellente.
Gli ascolti ripetuti, però, rendono giustizia a un disco vario, compiuto, deciso e coraggioso nelle scelte non convenzionali e non commerciali. Qui l’anima plumbea di Borland raggiunge probabilmente il culmine di un’analisi introspettiva lucida e malinconica, il racconto senza veli del male di vivere. Dark-wave allo stato puro, dunque. Sezione ritmica in primo piano, con le trame cadenzate della batteria di Mike Dudley e l’onnipresente basso di Graham Green. Il ritmo è rallentato, tanto che nella title track sembra di assistere agli ultimi palpiti di un cuore in agonia; eppure il gruppo è capace di repentine accelerazioni, di slanci di vitalità che si collocano tra le cose migliori di quegli anni. Il paragone con il resto della produzione di Borland & soci è inevitabile, ma se ci soffermiamo sulle tracce, tralasciando il passato e il futuro, c’è da rimanerne abbagliati. Monument è la canzone d’amore definitiva, perché dentro c’è tutto: la paura, l’ascesa, la caduta e la sublimazione di una donna che «is not just a girl, not just a building for the skyline, but a monument to love». Per non parlare di Party of the mind, che è un viaggio allucinato di tre minuti nella mente di Borland, che sa essere al contempo cupo e meravigliosamente ironico. Poi c’è l’accelerazione finale di Song and dance, di una perfezione così straordinariamente terrena che verrebbe voglia di ballarla. Forse in questo disco mancano un po’ le trame psichedeliche delle tastiere di Max Mayers; lo capisci perché quando ci mette il suo tocco magico, come nelle tre note di Where the love is, la canzone si apre in direzioni inaspettate, prende strade laterali che la trasformano in un gioiello. Oppure si ascolti la conclusiva We could go far, retta dal basso imperioso di Green, o ancora la coda di Song and dance, in cui tutto il gruppo dà il meglio di sé. È proprio quando il suono si fa più coeso e partecipato che il disco vive i suoi momenti più alti.
Un discorso a parte merita Adrian Borland: le sue chitarre lancinanti, i testi disperati ma lucidi e la sua interpretazione vocale sono in grado di dare il vestito giusto al disco. The Sound era un gruppo affiatato, ma in All fall down si sente maggiormente la scrittura di Borland, che ammanta ogni canzone di una carica di disperazione senza eguali. Egli canta le tematiche più care, come il male di vivere, l’inanità degli sforzi di cambiare, l’irrisolutezza, e lo fa allargando la prospettiva dal piano individuale a quello collettivo (come in Red paint). Le atmosfere plumbee predominano persino nelle canzoni d’amore, ma Borland è capace di costruire deliziosi quadretti ironici (Party of the mind) e di lanciare messaggi di speranza, sia pure in forma dubitativa. Non è un caso che il disco si apra con una dichiarazione di resa e si concluda con le timide parole di fiducia che chiudono We could go far.
Servono ripetuti ascolti per cogliere l’aspetto decisivo, ovvero la compiutezza di fondo, la circolarità di temi e ritmi, che ne fanno un lavoro in un certo senso perfetto. Forse è l’album meno accessibile del quartetto inglese, ma è un disco che si lascia comprendere, assimilare e amare con pazienza, alla distanza.
La criptica copertina di All fall down (1982)

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