2 ottobre 2018

Lo sguardo impietoso di Ken Loach e la famiglia come "istituzione totale"

Basta guardare i primi fotogrammi di Family life (1971) del regista britannico Ken Loach per comprendere l’essenza più profonda del film, ovvero la feroce critica alla media borghesia inglese e alla sua standardizzata way of life. La telecamera indugia sulle case a schiera di un quartiere residenziale, tutte perfettamente identiche. Lo sguardo si sposta da una strada all’altra: ovunque file di abitazioni indistinguibili, di mattoni rossi o grigi. Dentro le case, facile immaginarlo, migliaia di esistenze tutte uguali si arrabattano giorno dopo giorno nella pudica anestesia del benessere borghese.
Janice ha poco più di vent’anni e proviene da una di queste periferie. I genitori sono la quintessenza del conformismo, lo specchio di una società che ha sacrificato le individualità ad un apparente benessere collettivo, che tende ad emarginare ogni diversità, ad annichilire ogni tentativo di uscire dal cerchio. Una società all’apparenza tollerante, ma che in realtà esclude e segrega chiunque appaia diverso: psicolabili, omosessuali, ribelli, artisti, sognatori. Il primo, terribile strumento di cui il sistema si serve, è proprio la famiglia, che Loach dipinge coi toni claustrofobici di un’istituzione totale. La repressione dell’individualità non avviene però, lo si badi bene, attraverso la violenza fisica, quanto piuttosto mediante l’imposizione di divieti e regole morali che portano chiunque voglia divergere a sentirsi colpevole, sbagliato, fuori controllo. Janice è praticamente privata di ogni facoltà decisionale: è la madre a pensare per lei, a sapere cosa le faccia bene e cosa male. Il disagio psichico, già latente, esplode quando la ragazza rimane incinta ed è costretta dai genitori ad abortire per salvare l’onore della famiglia, compromesso da una gravidanza al di fuori del matrimonio. Janice avrebbe voluto tenere il bambino e lo shock per un’imposizione così tremenda le scatena una crisi che la condurrà ad un ricovero in clinica psichiatrica. Le cose sembrano migliorare grazie all’innovativo approccio del dottor Donaldson, che si oppone alla psichiatria tradizionale e vuole curare i pazienti con il dialogo e il confronto. Egli comprende l’origine sociale e familiare del disturbo di Janice, ma proprio quando sta per raccogliere i primi frutti viene esonerato dall’incarico per mancanza di fondi. Orfana dell’unico in grado di comprenderla, Janice è affidata alla psichiatria tradizionale, che cura i sintomi ma non indaga le cause. Imbottita di farmaci e sottoposta persino all’elettroshock, scivola progressivamente verso uno stato catatonico, che le nega identità, gioventù, sogni e felicità.
Il lungometraggio è una critica feroce alla vecchia concezione della psichiatria, la “buona battaglia” che in Italia ha trovato in Basaglia il più importante promotore. Loach è chiaro e non accetta compromessi: il manicomio è un’istituzione totale, un campo di concentramento senza scampo, che annulla l’individuo anziché orientarne i comportamenti in senso terapeutico. Nell’ospedale psichiatrico si ripetono riti e ossessioni della famiglia borghese, in primis la condanna dell’eros, tanto che non si comprende se sia più castrante il primo o la seconda. E alla fine si compie un terribile paradosso: mentre lo psichiatra illuminato Donaldson ha compreso quanto il germe della follia possa insidiarsi proprio nelle famiglie apparentemente “perfette”, la psichiatria ufficiale nega la connessione tra malattia e ambiente sociale, usando come dimostrazione il caso di Janice, schizofrenica nonostante sia nata e cresciuta in una “famiglia bene”.
Family life è un pugno nello stomaco e un colpo al cuore. Loach, al terzo lungometraggio, già imposta i caratteri del suo stile: predominano i toni scuri, ad accentuare il senso di oppressione e disagio che la visione della pellicola provoca nello spettatore. Sicuramente si è portati ad immedesimarsi in Janice, la prima e più dolorosa martire del sistema; ma in fondo anche i genitori meritano la nostra pietà, carnefici inconsapevoli e vittime di un amore malato. In questo universo di chiusura e lacerazione, pochissime figure brillano. Certamente lo psichiatra innovatore Donaldson, che viene però emarginato dalla comunità scientifica per la eterodossia dei suoi metodi. Infine c’è il fidanzato di Janice, Tim, che tenta invano di aprirle gli occhi e di sottrarla al futuro che le è stato riservato. E voglio chiudere proprio con le sue profetiche parole, pronunciate in uno dei momenti più toccanti del film.
«Ecco cosa piace a tuo padre e a tua madre. Guarda. Squallore e convenzionalismo. Fa come ti dicono e ridurranno così anche te. Questa è la norma, ma resta da provare che sia anche giusto. Per me non lo è. Tutti in fila e ognuno al suo posto. Così è più facile scattare per correre ogni giorno al lavoro in fabbrica. Questo si chiama norma. Questo è il mondo e queste sono le famiglie: un campo di concentramento. Ecco il posto che hanno scelto per te nel mondo, un mondo dove non potrai cambiare niente, dare a niente la tua impronta.»

Il regista Ken Loach e l’attrice Sandy Ratcliff, che interpreta Janice. 
Foto di scena tratta dal sito https://www.critikat.com/ 

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