In un'interessante e sanguigna intervista rilasciata al mensile Rolling Stone in occasione dei
trentacinque anni di Un sabato italiano,
Sergio Caputo ha descritto l'atmosfera che si respirava ai suoi esordi. Erano
gli anni Ottanta dell'ottimismo sfrenato e del benessere ostentato, della
Milano da bere, di una crisi sotterranea che c'era ma non mordeva (ancora) quanti
desideravano fare la bella vita. Storie
di whisky andati (1988), il suo quinto LP, si pone decisamente come uno
spartiacque, eppure ancora risente dei vizi e degli eccessi dei primordi, quando
Caputo era soltanto un giovane pubblicitario trasferitosi dalla Capitale a
Milano, che lavorava di giorno e trascorreva la notte ciondolando da un locale
all'altro.
Un disco “alcolico”, dunque, come testimoniano la foto di copertina e
quella della busta interna, che ritraggono l'artista intento ad accendersi una
sigaretta, appoggiato mollemente al bancone di un bar. Nonostante l'alta
gradazione alcolica, è un disco coerente e compiuto, unitario nelle fonti di
ispirazione (il jazz e lo swing) e nelle tematiche trattate, attraversato da una sottile ironia. Mi spingo finanche ad affermare che è un LP
divertente e mai scontato, impreziosito da testi che sono veri e propri inni
del nonsense. Si leggano i versi che
aprono Oh mama della jungla blu: «è mezzanotte, mama, e sai che c'è? C'è un anaconda
dentro il frigidaire, ho un coccodrillo nella doccia, e sul parquet gli gnomi
ballano la rumba». O ancora, il fulminante attacco di Anche i detective piangono: «Grazie,
niente arsenico, fa venire l'ulcera». Sono testi paradossali e umoristici,
che descrivono la realtà filtrata attraverso gli occhi di un disincantato viveur, che dorme di giorno e si accende
di notte. Eppure non mancano le riflessioni profonde, come nell'ipnotica Quando l’amore va, da molti definita l'unica
canzone d'amore, nel senso tradizionale del termine, nel repertorio dell'artista romano. Ricordi d'infanzia
emergono poi nella nostalgica Maccheroni
amari: «guardo le foto di quand'ero
freak; ero un altro me, ero un altro chi?».
Come ho detto, jazz e swing sono gli ovvi punti di riferimento, sia pure
riletti attraverso una sgangherata verve italica, che fa il verso alla musica
americana, educandola secondo una sensibilità tutta latina. È un suono moderno e “americaneggiante”,
una vena ispirata e mai troppo battuta da altri cantautori nostrani, che resta
nella memoria a lungo e si mantiene attuale a distanza di oltre trent'anni. Il
lato A si apre con la spumeggiante Non
bevo più tequila, che se la gioca, quale migliore del disco, con la ritmata e
fantascientifica Bingo torna giù.
Onnipresenti basso e tastiere, mentre i fiati fanno capolino qui e lì, come
nella splendida coda strumentale di Quando
l’amore va. Merita una menzione anche Vieni
a salvare la mia anima, rilettura in chiave ironica della leggenda di
Aladino.
Storie di whisky andati non è il 33 giri più celebre di Caputo, eppure colpisce
già al primo ascolto. Rimanere indifferenti non è possibile, perché se è vero
che lo swing possa piacere o meno, è altrettanto indubbio che il disco abbia
personalità da vendere. Ascoltarlo significa entrare in bar equivoci,
frequentati da personaggi che sembrano usciti dalle canzoni di Carosone, dandies
in «giacca a quadri di tweed», che
regalano alle donne amate «rose rosse al
plastico»; uomini duri solo all'apparenza, che affogano nell'alcool le delusioni
della banalità del quotidiano.
Copertina e busta interna del 33 giri (CGD, 1988)
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