Parafrasando Jerome K.
Jerome, potrei dire che la recensione parla di tre uomini e una scatola. Leggenda
vuole che Echo fosse il nomignolo dato da Ian McCulloch ad una drum-machine; i Bunnymen erano lo stesso
McCulloch (voce e chitarra), Will Sergeant (chitarra solista) e Les Pattinson
(basso). Originari di Liverpool, vissero un po' in disparte la scena punk, che
aveva in Londra e Manchester i centri nevralgici. Quando però anche a Liverpool
aprì un locale di nuova tendenza, l'Eric Club, gli acerbi Bunnymen, tre uomini
e una macchina per l'appunto, cominciarono ad esibirsi raccogliendo i primi
modesti successi. Notati dalla Korova Records, mandarono in pensione la
batteria elettronica e ingaggiarono un vero batterista, Pete de Freitas. La
formazione così composta registrò Crocodiles
ai Rockfield Studios di Monmouth, in sole tre settimane nel 1980. Il risultato è
eccellente, per essere un album d'esordio.
Avere a disposizione
il mare magnum di internet non ha
fatto venire meno una mia vecchia abitudine. Ogni volta che acquisto, o sto per
acquistare, un disco, consulto il fedele Dizionario
del pop-rock del 2006 di Tonti & Gentile, testo sacro perché riesce a
condensare in poche battute il senso più profondo degli album di artisti più o
meno famosi. Crocodiles è definito il
«rifondatore della Psichedelia
liverpooliana», che «sembra guardare
ai Doors e all'America underground dei Sixties». La definizione coglie nel
segno, perché Crocodiles è un disco
zeppo di felici rimandi, che ha nella psichedelia degli anni Sessanta il primo
e ovvio campione di riferimento. Si ascolti Going up, che all'inizio sembra degli Electric Prunes e va avanti come
una canzone dei Love. Certo il sapore eighties si sente, ma un pezzo così non
avrebbe sfigurato in I had too much to
dream o nel monumentale Forever
changes, che pure lo precedono di una quindicina d'anni. Oppure prendete Pride, che starebbe bene in S.F. Sorrow dei lisergici Pretty Things,
senza se e senza ma.
Tuttavia, se
limitassimo il giudizio a questi elementi, non si coglierebbe l'originalità del
progetto, che va al di là della derivazione psichedelica o neo-psichedelica, che
dir si voglia. Echo and The Bunnymen si muovevano infatti nel solco della new wave di terra d'Albione, calderone
eterogeneo in cui convivevano le ossessioni dei Joy Division e dei Sound, gli echi
neoromantici degli Chameleons, le sperimentazioni elettroniche di Japan e
Ultravox, le divagazioni swing dei Comsat Angels e la claustrofobia dei primi
Cure. Echo and The Bunnyman, seguendo la direttrice delle chitarre acide e
delle melodie dolcemente perverse, raspavano a piene mani nel recente passato,
rileggendolo in un'ottica cupa, convulsa e malinconica, come dimostrano i
testi. Crocodiles resta un disco
meraviglioso a distanza di quasi quarant'anni proprio per la capacità di mantenere
un occhio al passato senza esserne tuttavia ancorato, ad ulteriore
dimostrazione di quanto la nuova onda fosse feconda di innovazioni, ben più del
punk dal quale pure derivava.
Crocodiles è un disco così compiuto che è arduo preferire una traccia
rispetto alle altre. Probabilmente i picchi sono Picture on my wall e Villiers
terrace, che portano il segno dei Bunnymen più delicati e malinconici. Personalmente
preferisco la canzone che dà il titolo al disco, nonché la meravigliosa Stars are stars, che condensa richiami
psichedelici con un testo tipicamente wave: «Now you spit out the sky / because it's empty and hollow. / All your
dreams / are hanging out to dry. / Stars are stars / and they shine so cold».
Il disco è stato
ristampato in diversi formati, anche in vinile. La versione più completa resta
comunque quella in cd del 2003 della Warner, perché contiene dieci tracce bonus
tra versioni alternative e dal vivo, oltre all'EP live Shine so hard.
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