16 maggio 2019

Ispirarsi al passato per costruire il presente: "Crocodiles"

Parafrasando Jerome K. Jerome, potrei dire che la recensione parla di tre uomini e una scatola. Leggenda vuole che Echo fosse il nomignolo dato da Ian McCulloch ad una drum-machine; i Bunnymen erano lo stesso McCulloch (voce e chitarra), Will Sergeant (chitarra solista) e Les Pattinson (basso). Originari di Liverpool, vissero un po' in disparte la scena punk, che aveva in Londra e Manchester i centri nevralgici. Quando però anche a Liverpool aprì un locale di nuova tendenza, l'Eric Club, gli acerbi Bunnymen, tre uomini e una macchina per l'appunto, cominciarono ad esibirsi raccogliendo i primi modesti successi. Notati dalla Korova Records, mandarono in pensione la batteria elettronica e ingaggiarono un vero batterista, Pete de Freitas. La formazione così composta registrò Crocodiles ai Rockfield Studios di Monmouth, in sole tre settimane nel 1980. Il risultato è eccellente, per essere un album d'esordio.
Avere a disposizione il mare magnum di internet non ha fatto venire meno una mia vecchia abitudine. Ogni volta che acquisto, o sto per acquistare, un disco, consulto il fedele Dizionario del pop-rock del 2006 di Tonti & Gentile, testo sacro perché riesce a condensare in poche battute il senso più profondo degli album di artisti più o meno famosi. Crocodiles è definito il «rifondatore della Psichedelia liverpooliana», che «sembra guardare ai Doors e all'America underground dei Sixties». La definizione coglie nel segno, perché Crocodiles è un disco zeppo di felici rimandi, che ha nella psichedelia degli anni Sessanta il primo e ovvio campione di riferimento. Si ascolti Going up, che all'inizio sembra degli Electric Prunes e va avanti come una canzone dei Love. Certo il sapore eighties si sente, ma un pezzo così non avrebbe sfigurato in I had too much to dream o nel monumentale Forever changes, che pure lo precedono di una quindicina d'anni. Oppure prendete Pride, che starebbe bene in S.F. Sorrow dei lisergici Pretty Things, senza se e senza ma.
Tuttavia, se limitassimo il giudizio a questi elementi, non si coglierebbe l'originalità del progetto, che va al di là della derivazione psichedelica o neo-psichedelica, che dir si voglia. Echo and The Bunnymen si muovevano infatti nel solco della new wave di terra d'Albione, calderone eterogeneo in cui convivevano le ossessioni dei Joy Division e dei Sound, gli echi neoromantici degli Chameleons, le sperimentazioni elettroniche di Japan e Ultravox, le divagazioni swing dei Comsat Angels e la claustrofobia dei primi Cure. Echo and The Bunnyman, seguendo la direttrice delle chitarre acide e delle melodie dolcemente perverse, raspavano a piene mani nel recente passato, rileggendolo in un'ottica cupa, convulsa e malinconica, come dimostrano i testi. Crocodiles resta un disco meraviglioso a distanza di quasi quarant'anni proprio per la capacità di mantenere un occhio al passato senza esserne tuttavia ancorato, ad ulteriore dimostrazione di quanto la nuova onda fosse feconda di innovazioni, ben più del punk dal quale pure derivava.  
Crocodiles è un disco così compiuto che è arduo preferire una traccia rispetto alle altre. Probabilmente i picchi sono Picture on my wall e Villiers terrace, che portano il segno dei Bunnymen più delicati e malinconici. Personalmente preferisco la canzone che dà il titolo al disco, nonché la meravigliosa Stars are stars, che condensa richiami psichedelici con un testo tipicamente wave: «Now you spit out the sky / because it's empty and hollow. / All your dreams / are hanging out to dry. / Stars are stars / and they shine so cold».
Il disco è stato ristampato in diversi formati, anche in vinile. La versione più completa resta comunque quella in cd del 2003 della Warner, perché contiene dieci tracce bonus tra versioni alternative e dal vivo, oltre all'EP live Shine so hard.

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