All'alba del terzo LP,
intitolato Architecture & Morality (1981), gli Orchestral Manoeuvres in the
Dark (d'ora in avanti, OMD) avevano già raggiunto una fama che fino a pochi
anni prima sembrava impensabile. Il disco venne registrato nello studio
casalingo "The Manor", con una formazione allargata. Ai fondatori Paul Humphreys e
Andrew Mc Cluskey, si aggiunsero in pianta stabile Malcolm Holmes alle
percussioni, Martin Cooper al sassofono e Michael Douglas. Venne anche ampliata la
strumentazione, con l'uso di sintetizzatori, mellotron, oscillatori, batterie
elettroniche e finanche chitarre.
Tutto era cominciato
qualche tempo prima, quando due ragazzi innamorati della musica cosmica tedesca
e dei Kraftwerk avevano iniziato a girare per i mercatini dell'usato e le fiere,
alla ricerca di strumenti che potessero anche solo avvicinarsi al suono dei
giganti teutonici dell'elettronica. Dopo l'acerbo e omonimo primo disco, gli
OMD raggiunsero il successo con Organisation (1980), trainato dal singolo Enola
Gay, in classifica anche in Italia.
The new stone age apre
Architecture & Morality, con distorsioni industriali e visioni apocalittiche, disegnate
da chitarre disturbate ed echi lancinanti delle tastiere, mentre le voci si
rincorrono come impazzite. La successiva She's leaving ricorda i primissimi
Depeche Mode, quelli di Speak and spell per intenderci, uscito nello stesso
anno. La voce si staglia sopra un delicatissimo tappeto sonoro, che riconcilia
col mondo dopo il convulso inizio. Souvenir venne lanciata come singolo, e
trova proprio nel suo essere “radiofonica” il più evidente limite. Il riscatto
arriva subito, con la cupa Sealand, che chiude il lato A. Sono otto minuti di
crepitii e riverberi, la drum machine che sussulta in sottofondo, accompagnando
i magici intrecci di sintetizzatore e mellotron: in due parole, il prog che
abbraccia l’elettronica. Sealand è l'apice del disco, con suoni che sembrano venire
da mondi lontani e il breve intermezzo vocale, quasi salmodiante, fino alle
percussioni di un martello che chiudono la facciata. Joan of Arc,
divisa in due momenti, fa persino venire la voglia di ballare; pensato come un pezzo orecchiabile, convince sia gli ascoltatori più distratti che quelli
più esigenti. La traccia che dà il titolo al disco, invece, è un lavoro minimale alla
Kraftwerk, dove più si sentono le fonti di ispirazione del gruppo. Echi
synth-pop chiudono la seconda facciata, impreziosita dalla malinconica Georgia.
Nove tracce in tutto,
forse non memorabili, ma di alto livello compositivo. Quando si ascoltano
lavori del genere, figli dell'epoca dell'indigestione elettronica, è legittimo
domandarsi quanto siano attuali. Architecture & Morality è invecchiato
bene, più di tanti dischi coevi. E se è vero che «ciò che sta nel mezzo in genere è virtù», come dicevano i Bluvertigo, si può azzardare che la virtù
principale di questo 33 giri degli OMD sia proprio l'equilibrio tra parti
strumentali e vocali, tra divagazioni elettroniche e strizzatine d'occhio al
pop, tra sperimentazione e aperture al grande pubblico. Ha venduto molto, per cui
è facile trovarlo usato.
La copertina minimale, opera di Peter Saville
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