10 aprile 2022

"La donna in bianco" di Wilkie Collins: la rivincita del romanzo vittoriano

Ci sono libri che ti prendono a tradimento: si presentano sotto mentite spoglie, nascondendosi dietro un'apparenza dimessa, per poi rivelare a poco a poco la loro natura. Rientrano in questa categoria alcuni corposi romanzi dell'Ottocento, originariamente pubblicati a puntate su qualche rivista destinata a un pubblico di estrazione borghese. Chi scriveva questi romanzi, cosiddetti di appendice, sapeva come tenere i lettori incollati alle pagine. Bastava infarcire le storie di amori scabrosi, tradimenti, inganni, scambi di persona, finte morti e resurrezioni, qualche elemento soprannaturale, e il gioco era fatto. Molti di questi libri non sono sopravvissuti alla fine dell'epoca in cui vennero concepiti, e oggi sono a malapena ricordati da qualche archeologo da mercatino dell'usato. Altri, invece, sono tuttora stampati e incontrano nuovi e fedeli ammiratori.
Mi sono approcciato a La donna in bianco di Wilkie Collins (1824-1889) con qualche pregiudizio, sebbene la stretta amicizia del suo autore con Charles Dickens fosse già di per sé una sufficiente garanzia. Uscì a puntate sulla rivista All the year round tra il 1859 e il 1860, nella migliore tradizione del feuilleton. Fu, manco a dirlo, uno strepitoso successo di pubblico. Anche io ne sono stato prima ammaliato e infine conquistato, ansioso di conoscere la conclusione dell'intricata vicenda. Al pari degli antenati di un secolo e mezzo fa, ho sofferto e gioito assieme ai protagonisti, mi sono rammaricato dei loro dispiaceri e ho tirato un sospiro di sollievo a ogni pericolo scampato. Leggere La donna in bianco è un'esperienza che definirei "ottocentesca", sebbene l'aggettivo non abbia alcun significato proprio. Eppure non mi viene in mente parola migliore. Fatto sta che il volume scorre nonostante le oltre seicento pagine, ti invischia in un intreccio dai tratti parossistici, dalle tinte fosche e rosa, una via di mezzo tra una telenovela e un giallo. Mi scuso se sembro sarcastico, perché non è mia intenzione. In verità provo grande ammirazione e rispetto per la mente che ha saputo concepire una storia così avvincente, in grado di ammaliare i lettori a distanza di un secolo e mezzo dalla sua pubblicazione. La società di cui parla Collins non esiste più, il mondo dominato da un'aristocrazia vacua e sciovinista si è dissolto sotto le picconate della democrazia e dell'egualitarismo, eppure questo volume ha ancora tanto da dirci. Un classico che più classico non si può, sebbene non sia universalmente conosciuto al pari di altre opere di minore levatura.
Riassumere in poche righe la trama non avrebbe senso e sarebbe persino fuorviante. Basti dire che la complicata vicenda si snoda tra la caotica Londra e le placide campagne dell'Hampshire e del Cumberland. Proprio in quest'ultima regione, in un'avita dimora conosciuta come Limmeridge House, vivono Laura e Marian, sorelle per parte di madre. La prima è dolce e sensibile, erede di una grossa fortuna e promessa in sposa al bieco Sir Percival Glyde. La seconda è forte ed energica e vive solo per amore della sorella, il cui benessere è l'obiettivo della sua vita. L'arrivo nella casa di un maestro di disegno, Walter Hartright, sconvolge il cuore di Laura, gettando pesanti ombre sul suo prossimo matrimonio. A scompigliare ulteriormente le carte, una misteriosa donna vestita completamente di bianco, che appare e scompare all'improvviso e sembra essere indissolubilmente legata a un terribile segreto del passato di Sir Glyde. Su queste basi piuttosto classiche ha inizio un turbinio di avvenimenti che si dipanano pagina dopo pagina. 
Terminata la lettura, mi sono chiesto cos'è che più affascina di questo romanzo, quali sono i punti di forza al di là della trama e dei colpi di scena. Ritengo che le ragioni del suo successo siano principalmente tre. La prima risiede nella tecnica narrativa utilizzata: Collins optò infatti per un racconto a più voci. Non c'è un unico narratore onnisciente, sono gli stessi personaggi ad alternarsi nell'esposizione dei fatti secondo quanto è di loro conoscenza. Ciascuno narra un pezzo della storia, attraverso memoriali, resoconti, testimonianze e pagine di diario. A differenza di ciò che si potrebbe pensare, l'intreccio non risulta ostico o appesantito; anzi, La donna in bianco è un racconto corale perfettamente riuscito. Altro pregio è la modernità del linguaggio: la scrittura è scorrevole, non si dilunga in particolari non necessari, è perfettamente funzionale all'intenso incedere della trama. Tra tutti gli scrittori dell'epoca vittoriana, Collins è forse il più moderno. Il suo stile essenziale non indulge in ampollose divagazioni, né quando descrive i luoghi, né quando si addentra nell'animo dei personaggi. Questi ultimi sono il terzo, grande punto di forza del libro. Tutti sono perfettamente delineati, dai protagonisti alle figure di contorno. Collins dimostra una encomiabile capacità di approfondimento psicologico, che rende credibili tanto i protagonisti quanto i personaggi minori. Su tutti, svetta l'italianissimo conte Fosco, il vero "cattivo" del romanzo. A lui voglio dedicare le ultime righe di questa recensione. La sua è una figura straordinaria, oserei dire monumentale, destinata a rimanere impressa nella mente del lettore, sebbene qualcuno potrebbe obiettare che incarni tutti gli odiosi pregiudizi degli inglesi verso gli italiani. È un gentiluomo impeccabile che segue una propria discutibile morale: è scaltro, voltagabbana, astuto, un finissimo pensatore e al tempo stesso un uomo d'azione. Il conte Fosco è capace al contempo di grandi infamie e disinteressati gesti d'altruismo: egli è la somma di mille contraddizioni e per questo è la prova tangibile della straordinaria penna di Wilkie Collins.

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