Ci sono libri che ti prendono a tradimento: si
presentano sotto mentite spoglie, nascondendosi dietro un'apparenza dimessa,
per poi rivelare a poco a poco la loro natura. Rientrano in questa categoria
alcuni corposi romanzi dell'Ottocento, originariamente pubblicati a puntate su
qualche rivista destinata a un pubblico di estrazione borghese. Chi scriveva
questi romanzi, cosiddetti di appendice, sapeva come tenere i lettori incollati
alle pagine. Bastava infarcire le storie di amori scabrosi, tradimenti,
inganni, scambi di persona, finte morti e resurrezioni, qualche elemento
soprannaturale, e il gioco era fatto. Molti di questi libri non sono
sopravvissuti alla fine dell'epoca in cui vennero concepiti, e oggi sono a
malapena ricordati da qualche archeologo da mercatino dell'usato. Altri,
invece, sono tuttora stampati e incontrano nuovi e fedeli ammiratori.
Mi sono approcciato a La donna in bianco di
Wilkie Collins (1824-1889) con qualche pregiudizio, sebbene la stretta amicizia
del suo autore con Charles Dickens fosse già di per sé una sufficiente
garanzia. Uscì a puntate sulla rivista All the year round tra il 1859 e il
1860, nella migliore tradizione del feuilleton. Fu, manco a dirlo, uno
strepitoso successo di pubblico. Anche io ne sono stato prima ammaliato e
infine conquistato, ansioso di conoscere la conclusione dell'intricata vicenda.
Al pari degli antenati di un secolo e mezzo fa, ho sofferto e gioito assieme ai
protagonisti, mi sono rammaricato dei loro dispiaceri e ho tirato un sospiro di
sollievo a ogni pericolo scampato. Leggere La donna in bianco è un'esperienza
che definirei "ottocentesca", sebbene l'aggettivo non abbia alcun significato
proprio. Eppure non mi viene in mente parola migliore. Fatto sta che il volume
scorre nonostante le oltre seicento pagine, ti invischia in un intreccio dai
tratti parossistici, dalle tinte fosche e rosa, una via di mezzo tra una
telenovela e un giallo. Mi scuso se sembro sarcastico, perché non è mia
intenzione. In verità provo grande ammirazione e rispetto per la mente che ha
saputo concepire una storia così avvincente, in grado di ammaliare i lettori a
distanza di un secolo e mezzo dalla sua pubblicazione. La società di cui parla
Collins non esiste più, il mondo dominato da un'aristocrazia vacua e sciovinista
si è dissolto sotto le picconate della democrazia e dell'egualitarismo, eppure questo
volume ha ancora tanto da dirci. Un classico che più classico non si può,
sebbene non sia universalmente conosciuto al pari di altre opere di minore
levatura.
Riassumere
in poche righe la trama non avrebbe senso e sarebbe persino fuorviante. Basti
dire che la complicata vicenda si snoda tra la caotica Londra e le placide
campagne dell'Hampshire e del Cumberland. Proprio in quest'ultima regione, in
un'avita dimora conosciuta come Limmeridge House, vivono Laura e Marian,
sorelle per parte di madre. La prima è dolce e sensibile, erede di una grossa
fortuna e promessa in sposa al bieco Sir Percival Glyde. La seconda è forte ed
energica e vive solo per amore della sorella, il cui benessere è l'obiettivo
della sua vita. L'arrivo nella casa di un maestro di disegno, Walter Hartright,
sconvolge il cuore di Laura, gettando pesanti ombre sul suo prossimo
matrimonio. A scompigliare ulteriormente le carte, una misteriosa donna vestita
completamente di bianco, che appare e scompare all'improvviso e sembra essere
indissolubilmente legata a un terribile segreto del passato di Sir Glyde. Su
queste basi piuttosto classiche ha inizio un turbinio di avvenimenti che si
dipanano pagina dopo pagina.
Terminata
la lettura, mi sono chiesto cos'è che più affascina di questo romanzo, quali sono
i punti di forza al di là della trama e dei colpi di scena. Ritengo che le
ragioni del suo successo siano principalmente tre. La prima risiede nella
tecnica narrativa utilizzata: Collins optò infatti per un racconto a più voci.
Non c'è un unico narratore onnisciente, sono gli stessi personaggi ad
alternarsi nell'esposizione dei fatti secondo quanto è di loro conoscenza.
Ciascuno narra un pezzo della storia, attraverso memoriali, resoconti,
testimonianze e pagine di diario. A differenza di ciò che si potrebbe pensare,
l'intreccio non risulta ostico o appesantito; anzi, La donna in bianco è un
racconto corale perfettamente riuscito. Altro pregio è la modernità del
linguaggio: la scrittura è scorrevole, non si dilunga in particolari non
necessari, è perfettamente funzionale all'intenso incedere della trama. Tra
tutti gli scrittori dell'epoca vittoriana, Collins è forse il più moderno. Il
suo stile essenziale non indulge in ampollose divagazioni, né quando descrive i
luoghi, né quando si addentra nell'animo dei personaggi. Questi ultimi
sono il terzo, grande punto di forza del libro. Tutti sono perfettamente
delineati, dai protagonisti alle figure di contorno. Collins dimostra una encomiabile
capacità di approfondimento psicologico, che rende credibili tanto i
protagonisti quanto i personaggi minori. Su tutti, svetta l'italianissimo conte
Fosco, il vero "cattivo" del romanzo. A lui voglio dedicare le ultime righe di
questa recensione. La sua è una figura straordinaria, oserei dire monumentale,
destinata a rimanere impressa nella mente del lettore, sebbene qualcuno
potrebbe obiettare che incarni tutti gli odiosi pregiudizi degli inglesi verso
gli italiani. È un gentiluomo impeccabile che segue una propria
discutibile morale: è scaltro, voltagabbana, astuto, un finissimo pensatore e
al tempo stesso un uomo d'azione. Il conte Fosco è capace al contempo di grandi
infamie e disinteressati gesti d'altruismo: egli è la somma di mille
contraddizioni e per questo è la prova tangibile della straordinaria penna di
Wilkie Collins.
Nessun commento:
Posta un commento
Commenta l'articolo!