17 ottobre 2022

Crepuscolari, poeti della negazione

Nei libri di scuola e nelle antologie si parla di Crepuscolarismo ingenerando l'idea che si trattò di un movimento. In verità, i poeti che noi chiamiamo crepuscolari non fondarono un'accademia, né elaborarono manifesti o programmi. Li univa una sensibilità comune che tuttavia non si concretizzò mai in una scuola o in un progetto strutturato. Vissuti nel periodo storico a cavallo tra Scapigliatura e Futurismo, non sono riconducibili a queste due correnti. A differenza degli scapigliati, non si sentivano parte di un'avanguardia; a differenza dei futuristi, non volevano rovesciare l'estetica e lo status quo tramite roboanti manifesti e dichiarazioni di intenti. Rifuggivano l'eroismo e i facili entusiasmi, non volevano costruire l'uomo nuovo né fare da apripista a rivoluzioni politiche o culturali, non volevano bruciare le accademie né inventare un nuovo linguaggio, a loro non interessava arringare le folle o essere un modello. «Io sento che fo da comparsa e che non ho niente da dire», scriveva in proposito Carlo Vallini. I crepuscolari sono dunque gli antieroi per eccellenza, poeti della negazione che tuttavia hanno conquistato un posto di rilievo nella nostra letteratura. Nino Oxilia così ricordò i suoi amici Gozzano e Corazzini: «la vostra sorte / fu quella dell'onda che sciacqua / lieve lieve sulla sabbia, / non quella dell'ondata che si squassa / sugli scogli con impeti di rabbia; / foste la nuvola che passa, / il vostro nome fu scritto sull'acqua». Tutto vero, salvo per l'ultimo verso.
«Poesia è sentirsi morire», scriveva Fausto Maria Martini nel suo romanzo autobiografico Si sbarca a New York. «Io non sono un poeta», annunciava mestamente Corazzini in Desolazione del povero poeta sentimentale. Il crepuscolo come momento più triste della giornata, metafora della fine della giovinezza e dell'ingresso nell'età adulta, tono soffuso che riveste le cose di una polvere malinconica e richiama alla mente immagini di finitezza e di morte. La poesia crepuscolare è una poesia del quotidiano, che tuttavia non cerca negli oggetti chissà quale significato nascosto o esoterico. Le cose sono come le vediamo, richiamano la vita di chi le ha possedute e sopravvivono alla sua scomparsa. Non a caso le liriche parlano di ville abbandonate, vuoti salotti piccolo-borghesi, sanatori per tisici, conventi, convitti, cimiteri, lunghi viali solitari. L'organo di Barberia sostituisce gli squilli di tromba e le pagine grondano di umori malinconici e desolati. Le loro liriche sono popolate di sartine, suorine, bellezze appannate dall'incipiente vecchiaia, giovani melanconici e feriti dalla vita, collegiali, maestrine e convittori. Per capire cos'è stato il Crepuscolarismo, basterebbe leggere lo scarno epitaffio sulla modesta tomba di Corazzini nel cimitero del Verano a Roma: «per chi ricorda, Sergio Corazzini, poeta, a vent'anni». Parole semplici, quasi remissive, rivolte non a un vasto pubblico, ma alla sparuta schiera di "chi ricorda" questo poeta bambino tra i più prodigiosi della nostra letteratura.
Una raccolta esauriente per chi volesse avvicinarsi a questa corrente è quella a cura di Francesco Grisi edita da Newton Compton nella collana Grandi Tascabili Economici. Sebbene sia di difficile reperibilità in quanto edita nel 1995, è un'antologia completa perché ospita sia la "sacra triade" Gozzano-Corazzini-Moretti che una miriade di autori meno noti come Yosto Randaccio, Remo Mannoni, Enzo Marcellusi, Nino Oxilia e altri. Da questa raccolta ho scelto tre liriche che trattano il tema dell'abbandono, uno tra i più cari a questi "poeti della negazione".

Sergio Corazzini (1886-1907) – La villa antica
Dopo tant'anni, ieri. Il viale breve
dietro il vecchio cancello si distende
come un tempo; però sotto la neve
non vi sono più fiori, e più non pende
alcun frutto dai rami; stanca e lieve
ne la triste fontana l'acqua scende...
Nel portico, due legiadrette Eve
un Don Giovanni sotto braccio prende.

Sorridentesi sempre! O, se la pioggia
vi renda gialle o brutte o, se di notte
vi allieti il bacio buono delle stelle
di fra l'edera verde de la loggia,
o statuette moribonde e rotte,
o, della villa dolci sentinelle!


Corrado Govoni (1884-1965) – Villa chiusa
So d'una villa chiusa e abbandonata
da tempo immemorabile, secreta
e chiusa come il cuore d'un poeta
che viva in solitudine forzata.

La circonda una siepe aggrovigliata
di bosso, ed una magica pineta
la cui ombra non più rende inquieta
la garrula fontana disseccata.

Tanta è la pace in questa intisichita
villa, che pare quasi che ogni cosa
sia veduta a traverso d'una lente.

Solo una ventarola arrugginita,
in alto, su la torre silenziosa,
che gira, gira, interminatamente.


Yosto Randaccio (1880-1938) – Chiesa abbandonata
Chiesa bianca solitaria,
sopita nel sogno de l'aria.
E le buone preghiere?
E le anime salmodianti,
e gli organi tuonanti
nel mistero de le sere?

Sento che spira un triste vento
d'esulamento.
Per dove? Il mio cuore non lo sa,
anima de l'eternità.
La nostra tristezza chi la porta?
Quale gigante s'affatica
ne la lotta infinita
che non terminerà?

Tu pure sei morta!
Non lo senti stasera
nel vuoto di questa navata
desolata,
non lo senti questo vento
d'esulamento,
queste grida di suicida?
Antologia Newton Compton del 1995 a cura di F. Grisi

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