Nella ricchissima produzione cinematografica nostrana degli anni Sessanta e Settanta alcune pellicole sono invecchiate benissimo, altre risentono un po' degli anni e infine ci sono quelle che non hanno più niente da dire. Le prime vanno guardate con l'occhio del critico, le seconde si adattano ai nostalgici, le terze possono stimolare al più qualche velleità archeologica. Personalmente ritengo di non appartenere a nessuna di queste categorie: quando guardo un vecchio film, cerco semplicemente qualcosa che possa incoraggiare una riflessione, magari in relazione al presente. E invero sono tanti i lungometraggi, sia pure figli del proprio tempo, che a distanza di oltre quarant'anni sono ancora in grado di dirci qualcosa, se non addirittura di interpretare angosce e sentimenti dell'uomo contemporaneo. Questo è forse il tratto distintivo di molte opere dei fratelli Taviani che dialogano egregiamente con il tempo presente, pur occupandosi di eventi storici lontani. Tre esempi su tutti: San Michele aveva un gallo, Allonsafàn e I sovversivi.
Proprio di quest'ultimo vorrei parlare, facendo una premessa: per uno strano paradosso è forse il film che appare più "datato". Ho parlato di un paradosso perché, dei tre, è ambientato in un anno a noi più vicino, il 1964. Ciononostante, i protagonisti degli altri due film, Giulio Manieri e Fulvio Imbriani, pur essendo uomini dell'Ottocento, mi sono sembrati più vicini alla sensibilità contemporanea per un tormento indefinito che non sa trasformarsi in azione e forza propulsiva. San Michele aveva un gallo, Allonsafàn e I sovversivi sono, sia pure a livelli e intensità diverse, opere magistrali sul disinganno e il disimpegno, sulla fine degli ideali e l'amara scelta di mettere i sogni in disparte. I sovversivi è stato il primo lavoro in cui i fratelli Taviani hanno affrontato queste complesse tematiche; uscito nel 1967, è stato il loro esordio in tandem alla regia, dopo aver collaborato assieme a Valentino Orsini.
Fine agosto 1964, in una Roma torrida e confusa si celebrano i funerali del segretario del PCI Palmiro Togliatti, morto pochi giorni prima a Jalta, in Crimea. La camera ardente e le esequie sono un momento di partecipazione e lutto collettivo che coinvolge giovani e vecchi militanti, donne e uomini provenienti da ogni parte del mondo. Tra questi, ci sono i personaggi del lungometraggio. Ne I sovversivi non c'è un solo protagonista, perché il film si compone di più storie tra loro slegate che tuttavia si riuniscono nella scena finale dell'incedere del feretro tra due ali di folla. Sebastiano è un piccolo funzionario di partito, devoto alla causa, dotato di una fede politica incrollabile, da lui vissuta come e più di una religione: pur essendo un comunista, ha atteggiamenti e pensieri piccolo-borghesi. Durante il viaggio a Roma scopre che la moglie Giulia ha tendenze omosessuali e in pochi giorni il suo castello di certezze granitiche va in fumo. Lo stesso contrasto tra conservazione e rivoluzione contrappone Muzio a Ermanno. Il primo è un fotografo incaricato di fare un reportage sui funerali di Togliatti; anche lui, come Sebastiano, vive la fede politica e la professione senza dubbi, nel pieno conformismo di tecniche e idee. Ermanno, l'amico e collaboratore interpretato da Lucio Dalla, è invece critico verso il partito e, più in generale, verso tutto ciò che è considerato socialmente accettato o auspicabile. È sposato con una donna più grande contro la volontà dei genitori e inoltre ha idee innovative e antiaccademiche anche sull'arte e la fotografia. Poi c'è Ettore, interpretato da Giulio Brogi, un oppositore politico venezuelano nascostosi a Roma per sfuggire alla polizia del suo Paese. Dopo due anni lontano da casa ha quasi dimenticato le ragioni che l'hanno portato a essere un latitante, la sua fede è smarrita o comunque affievolita. Con l'arrivo dei compagni venezuelani a Roma, si troverà a dover scegliere tra la fedeltà a ideali che gli appaiono superati e l'amore puro e incondizionato di Giovanna. Infine c'è Ludovico (un bravissimo Ferruccio De Ceresa), regista impegnato a ultimare un film su Leonardo da Vinci. Ludovico vorrebbe dirigere un lavoro all'avanguardia, ma le sue precarie condizioni di salute e gli inestricabili dubbi esistenziali lo bloccano in una gabbia.
Per tutti i personaggi del film il viaggio a Roma non è soltanto un atto di omaggio o cordoglio: ognuno ha un motivo diverso per andare ai funerali di Togliatti, ciascuno ha una crisi d'identità da dipanare, un dramma personale da affrontare. Devono fare i conti con se stessi, perché la morte del segretario segna lo smarrimento dei loro ideali. Nel film Togliatti non è un politico, né il segretario del PCI e neppure semplicemente un uomo: egli è il monolite delle certezze, rappresenta il pilastro degli ideali immutabili a cui i protagonisti del film cercano disperatamente di aggrapparsi. Le lacrime che versano davanti alla bara non sono un omaggio d'addio al leader, piuttosto la manifestazione tangibile, si potrebbe dire corporale, di uno smarrimento che è al tempo stesso collettivo e individuale.
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