3 dicembre 2023

"Il campo 29" di Sergio Antonielli: la dignità dei vinti

Sergio Antonielli è uno dei tanti scrittori dimenticati del nostro Novecento letterario. Nato a Roma nel 1920 e morto prematuramente a Milano nel 1982, fu anche critico e professore universitario, professione quest'ultima particolarmente amata perché permette «il supremo lusso di un po' di libertà», come ebbe a dire. È ricordato per alcuni saggi di letteratura, tra cui una monografia sul Parini, nonché per un pugno di romanzi quali La tigre viziosa (1954), Oppure, niente (1971) e L'elefante solitario (1979). La sua più memorabile prova di narrativa è tuttavia il romanzo d'esordio, intitolato semplicemente Il campo 29. Fu scritto nel 1947 e pubblicato due anni dopo in sole mille copie per le Edizioni Europee; la seconda edizione, sempre in mille esemplari, uscì nel 1952. Dimenticato per oltre mezzo secolo, è stato ristampato nel 2009 dalle Isbn Edizioni, nella meritoria collana "Novecento italiano", ideata per «rileggere alla luce dell'oggi opere della letteratura del secolo scorso […] dimenticate dagli editori e dagli studiosi e che perciò restano sconosciute o poco note all'ultima generazione di lettori».
Il romanzo racconta una vicenda reale ma ignorata dall'opinione pubblica: l'internamento di diecimila soldati e ufficiali italiani in India, prigionieri degli inglesi dal 1941 al 1946. I nostri militari vennero condotti in una zona remota, ai piedi della catena dell'Himalaya. I campi che ospitavano i prigionieri erano quattro, numerati dal 25 al 28; il numero 29 in realtà non esisteva, ma nel gergo dei prigionieri indicava l'aldilà. Quando uno di loro moriva, si diceva avesse raggiunto il campo 29. Nel voler lasciare questa testimonianza, Antonielli si trovò davanti a un bivio, ossia la scelta tra il racconto d'invenzione e il memoir autobiografico. Alla fine optò per una soluzione intermedia, come lui stesso ebbe a dire in uno scritto del 1975 riportato come prefazione all'edizione del 2009: «non riproduzione diaristica, o documento puro e semplice, o romanzo in senso tradizionale, bensì qualcosa d'intermedio: una sorta di traduzione della realtà». E tuttavia, l'aver privilegiato la soluzione del romanzo dev'essere stato intimamente sofferto, in quanto, secondo le sue stesse parole, sarebbe «dovuto andare più a fondo nel senso del documento».
Il campo 29 è un caleidoscopio di personaggi, ciascuno con le proprie ossessioni, idee, simpatie, idiosincrasie. Il protagonista, in cui forse è possibile ritrovare qualcosa dell'autore, è il sottotenente Venturi. All'apparenza cinico e scontroso, in realtà coltiva la solitudine come strumento di difesa contro i rischi della prigionia. I suoi amici sono Bersezio e Diego, il primo ossessionato da una conflittuale religiosità e il secondo che cerca di astrarsi dalle miserie del presente rifugiandosi nella poesia. La prigionia è fame, malattie e privazione della libertà, per quanto gli italiani in India abbiano beneficiato di condizioni decisamente migliori rispetto agli internati in Russia. I principali nemici dei prigionieri di Antonielli non sono dunque la violenza o l'oppressione dei carcerieri, ma il tedio e l'abbrutimento. Nel romanzo è descritta nei minimi dettagli la loro giornata, dalla sveglia fino alle lunghe notti insonni. Giornate tutte uguali scandite dalle medesime, noiose incombenze: la conta mattutina, le perquisizioni, le passeggiate, il tè pomeridiano nel circolo improvvisato, le visite reciproche nelle baracche, la lettura di qualche romanzetto, i ricordi d'Italia che mordono il cuore, piccole meschinità e grandi gesti d'altruismo. Antonielli si sofferma minutamente su quella vita, descrive con dovizia di particolari le baracche, i vestiti dei prigionieri e persino il cibo, offrendo un doloroso spaccato di vita vissuta. Tutti i personaggi sono ben scolpiti e definiti, tutti diversi eppure accomunati da due ossessioni: il desiderio del rimpatrio e la paura di impazzire, che supera persino quella di morire in India.
«Nel deserto delle giornate tutte uguali prendevano a spuntare le idee fisse, germogli della pazzia. L'idea fissa per eccellenza era la donna.»
Molte pagine sono proprio dedicate alla mancanza dell'affettività. Più ancora della fame e delle privazioni materiali, Antonielli descrive l'inappagabile bisogno dei prigionieri di calore umano, di affetto o anche semplicemente di un corpo di donna. Mancanze che conducono molti al suicidio, a disturbi mentali e finanche a perversioni sessuali. 
I soldati italiani prigionieri durante la Seconda guerra mondiale sono stati spesso negletti dalla politica e ignorati dai libri di scuola, pur essendo da sempre oggetto di interesse da parte degli storici. E neppure tutti sono stati trattati allo stesso modo; se infatti si è parlato molto dei prigionieri della campagna di Russia, solo da qualche anno è stato squarciato il velo di colpevole silenzio che circondava i cosiddetti I.M.I., coloro che per ostilità al fascismo furono internati nei campi tedeschi dopo l'otto settembre del 1943. La vicenda dei soldati italiani in India è tuttora ignorata dai più, sebbene sia pregna della stessa sofferenza. Antonielli, testimone diretto, si è fatto carico di raccontare con questo romanzo una storia che, pur collocandosi ai margini dei grandi avvenimenti del secondo conflitto mondiale, meritava di essere narrata per non essere dimenticata. È la storia dei vinti, di un'umanità dolente e lacera che tuttavia conserva un fondo insopprimibile e inalienabile di dignità.
«Ora sapeva che, posto il muro, gli uomini stanno dalla parte di qua: dei vinti. Avrebbe potuto dire agli inglesi: in questo gioco ho perso, ma è il vostro, un gioco volgare. Al mio ho vinto. Chi sei tu che mi tieni qua chiuso, che pubblichi sui giornali, della mia terra, solo le notizie che la infamano; che dici alla radio, della mia terra, della mia gente, solo quanto serve ad umiliarle? Tu sei uno che, perché altri della tua gente, vestiti come te, m'hanno abbattuto con le armi, mi vieni vicino col passo fermo e col volto del padrone. Ma sai che in me qualcosa vive che non è entrato in lotta, che non hai neanche sfidato: il mio nome e cognome; l'anima mia, i sogni per gli anni a venire, l'affetto per la donna che ho lasciata là, per mia madre che muore, forse, mentre ti parlo, lontana da me tutti questi chilometri che m'hai fatto percorrere tra le baionette. E in questo lo sai che non puoi vincermi a quel tuo gioco di botti e rombi e razzi e carri armati. Se qui mi sfidassi potresti perdere. E ti senti a disagio. E mentre a parole mi offendi, non mi guardi negli occhi.»

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