Ci sono racconti che meritano di essere ricordati per la perfezione del congegno narrativo, preciso come un meccanismo a orologeria che scatta al momento giusto. Sono storie in cui tutti gli elementi combaciano alla perfezione, puzzle letterari composti da pezzi che si incastrano in un solo possibile verso. Gioco all'alba dell'austriaco Arthur Schnitzler (1862-1931), è uno di questi. Romanzo breve scritto in età matura, è meno celebre di Doppio sogno e di Fuga nelle tenebre, eppure per certi versi è ancora più avvincente. Anzi, l'aggettivo giusto è avvinghiante. Il merito di questa malia non è tanto nel finale, scontato già a metà della narrazione, quanto nella strisciante tensione che conduce a quel finale e che esplode nelle ultime pagine, per l'appunto come una bomba a orologeria.
La vicenda si consuma in pochi, intensi giorni. Wilhelm, detto Willi, è un tenente dell'esercito asburgico, dedito alla bella vita tra donne, eventi mondani e giornate in caserma non troppo impegnative. Una sera un ex commilitone, tale Bogner, lo va a trovare per chiedergli in prestito mille fiorini, cifra necessaria per coprire un colpevole ammanco di cassa che, ove scoperto, gli procurerebbe grossi guai. Willi non possiede l'ingente somma, né è davvero intenzionato ad aiutare Bogner, considerato più un conoscente che un vero amico. Tuttavia, un po' per altruismo e un po' per desiderio di sfidare la sorte, si impegna a fare il possibile per reperire il denaro in appena ventiquattro ore, giocando d'azzardo la paga mensile. Nel corso di una folle notte il suo destino si compie: prima le carte benevole gli fanno guadagnare una cifra altissima, poi la febbre del gioco gli fa perdere tutto e persino maturare un onerosissimo debito con il console Schnabel, uno dei giocatori. Dalla sera all'alba la vita di Willi prende una piega drammatica e inaspettata: da ufficiale dalle finanze modeste ma sicure, si ritrova gravato di un ingente debito d'onore che non è in grado di saldare. Pagherà tutto e con gli interessi quando, alla spasmodica ricerca del denaro, incontrerà una sua vecchia fiamma, la crudele Leopoldine. È a questo punto che tutti i pezzi del mosaico, sparsi abilmente da Schnitzler nelle prime cento pagine, troveranno il perfetto incastro di cui parlavo all'inizio.
Il grande tema del romanzo è il gioco, o meglio la dipendenza da quello d'azzardo; oggi parleremmo di ludopatia, termine sconosciuto ai tempi di Schnitzler. Sarebbe tuttavia un'analisi superficiale, oltre che dettata dalla sensibilità contemporanea. Il vero gioco cui si riferiva lo scrittore austriaco attraverso la metafora delle carte è quello del destino, ancora più spietato di un tavolo verde. La vicenda di Willi insegna che non si può sfuggire al suo disegno perverso; possono volerci anni e numerose circonvoluzioni solo a prima vista casuali, ma tutto ciò che accade è già scritto e non c'è modo di mutarlo. Gli uomini sono apparentemente arbitri e protagonisti di questo gioco; in verità, sono pedine e vittime del passatempo crudele di un dio chiamato fato. Ogni azione e ogni omissione, per quanto sembrino dettate dal libero arbitrio, sono parte di una figurazione che sfugge alla capacità dell'uomo di dominarla. Il destino è già scritto e aspetta solo di compiersi; un qualsiasi evento, anche minimo, può dare il via a una ridda di accadimenti involontari e imprevedibili. Si pensi alla figura di Bogner, l'inetto ex commilitone che si presenta alla porta di Willi con una semplice richiesta di denaro. In un'ottica cristiana potrebbe essere la personificazione del diavolo tentatore, dato che è lui a instillare nell'ufficiale il tarlo del gioco. Con ogni probabilità, però, nessuna interpretazione teologica o teleologica può essere associata a Schnitzler, in quanto presupporrebbe una direzione finalistica in termini di causa/effetto o di peccato/espiazione, del tutto avulsa dalle sue intenzioni. Verosimilmente, il gioco delle carte è un simbolo della fatalità, dell'accadere casuale e rovinoso messo fortuitamente in moto dall'arrivo del misero Bogner.
Gioco all'alba è un libro del 1927 che mantiene ancora un'invidiabile freschezza, a conferma che si tratta di grande letteratura. A differenza di altri romanzi scritti nella stessa epoca non affronta il grande tòpos della letteratura austriaca del primo Novecento, ossia la caduta dell'Impero asburgico. Anzi, nelle pagine di Schnitzler quel mondo è vivo e vegeto, con le sue regole ferree spesso obsolete, il pervicace attaccamento alla divisa e all'onore, il culto dell'apparenza e la convinzione che sia preferibile la morte piuttosto che venire meno alla parola data.
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