26 ottobre 2024

"Cowboys & Indians" di Joseph O' Connor: l'impietosa giovinezza

Acerbo è forse l'aggettivo più adatto per descrivere con un'unica parola il romanzo d'esordio dell'irlandese O' Connor, edito nel 1991, quando lo scrittore aveva soltanto ventotto anni. Ciò non significa affatto che sia un cattivo romanzo; anzi, la storia è molto coinvolgente, i personaggi sono decisamente credibili e lo stile è colloquiale senza rinunciare a qualche slancio lirico. Tuttavia, pur emergendo le tracce del futuro scrittore di razza, qualche ingenuità e forzatura nella trama tradiscono l'essere un romanzo d'esordio. Il che non è necessariamente un male; anzi, è il segno di una libertà compositiva che spesso col tempo si tende a perdere, pur di inseguire i gusti del pubblico e i desiderata delle case editrici.
Eddie Virago, il protagonista, della rockstar ha solo il nome e i sogni di grandezza. Punk della prima ora con tanto di cresta da mohicano, a ventiquattro anni decide di lasciare la natia e sonnolenta Dublino per cercare fortuna a Londra. Siamo nei primi anni Ottanta, l'Irlanda del Nord è nel pieno dei Troubles e l'eco della guerriglia si fa sentire anche nella Repubblica, dove molti sono i nazionalisti e sostenitori dell'I.R.A. Eddie però ha in testa solo la musica e vede Londra come il centro di ogni cosa, il luogo dove i suoi sogni di successo potranno diventare realtà. Sul traghetto che lo porta in Inghilterra conosce Marion, una ragazza dell'Ulster con cui inizierà una tormentata e torbida relazione, consumata nelle stanze di un sordido albergo della Capitale gestito da un affabile indiano. La loro storia d'amore, sebbene non sia proprio corretto definirla tale, è il fulcro incontro a cui ruota l'intreccio.
Cowboys & Indians è un romanzo che vorrebbe inglobare in poco meno di trecento pagine tutta la potenza incendiaria della giovinezza, la sete di vita e di obiettivi – spesso irraggiungibili – che caratterizza l'età più verde. Eddie e Marion, però, mancano proprio della freschezza della gioventù. Più o meno dipendenti dall'alcool e dalle sostanze, tormentati da un demone innominato, rosi dall'instabilità emotiva, portano addosso e nell'anima i segni di profonde cicatrici che provano a nascondere proiettandosi nell'altro, da cui cercano una risposta alle proprie domande insolute. Il loro è un rapporto tossico sin dalle prime fasi e O' Connor ne è l'impietoso cronista.
I personaggi del romanzo fanno parte di una generazione perduta, al pari di quella beat che l'ha preceduta, o forse reduce da una sconfitta persino più grande. Se infatti i beat trovavano nella musica, nella droga e nell'impegno politico delle vere e proprie ragioni di vita, la generazione post-punk descritta da O' Connor patisce il riflusso delle ideologie, è decimata dall'eroina e ascolta un genere (il punk appunto) che già nel nome si autodefinisce come musica da due soldi, di scarso valore. Eddie ne è il prototipo: arrabbiato col mondo ma privo di un'ideologia di riferimento, vuole essere underground a tutti i costi ma in fondo anela al successo. Anche il rapporto con Marion vive di questa ambivalenza: maledice il giorno in cui l'ha incontrata, eppure quando lei non c'è ne sente visceralmente la mancanza. I protagonisti e tutte le figure di contorno sono personaggi non risolti, alla ricerca di qualcuno o qualcosa in cui possano identificarsi. Per O' Connor il romanzo diventa anche un'occasione per lanciare appuntiti strali contro i suoi connazionali, quegli irlandesi che desiderano fuggire dalla terra natale ma poi, una volta a Londra, non rinunciano a frequentare i medesimi pub e a consumare pinte di Guinness nell'illusione di trovarsi ancora a casa.
Il libro a qualcuno potrebbe sembrare un relitto storico, se pensiamo a come le nuove generazioni siano cambiate nell'arco di soli trent'anni. La musica ad esempio, in uno con l'avanzare del digitale, ha perso la centralità che aveva per chi è nato fino ai primissimi anni Novanta. Eddie dunque è figlio della sua epoca e forse oggi non c'è più spazio per i suoi capelli alla mohicana. Cowboys & Indians è un romanzo che può essere apprezzato da chi ha fatto proprio il manifesto del "no future": crudo e doloroso, non lascia spazio alla speranza, come prova il drammatico finale.

12 ottobre 2024

E intanto il tempo passa… I primi dischi dei Negrita

Ho sempre rispettato i Negrita, sebbene abbia seguito la loro carriera a fasi alterne. Li ho sempre rispettati perché penso che abbiano tracciato un percorso coerente, seppur ricco di svolte, di deviazioni, inversioni di tendenza e ritorni alle origini. Negli anni c'è stata la fase latino-americana, quella acustica e nuovamente quella elettrica; tuttavia, non me la sono mai sentita di parlare di tradimento, come sostenuto da qualche fan della prima ora. Trovo invece che la loro sia una strada coerente, quella di una rockband che, pur avendo raccolto molto, ha sempre mantenuto un profilo basso, con un'attitudine sincera che non è facile trovare in chi ha raggiunto il successo. Ho trovato sempre ingenerose, se non in malafede, le critiche per partito preso di alcuni autoproclamatisi "puristi" del rock che accusano Pau & soci di essere poco originali o addirittura finti, critica quest'ultima davvero fuori luogo.
Fermo restando che non esiste un patentino per essere rock, c'è da dire che la band aretina non ha mai assunto atteggiamenti da poser. Da più di trent'anni i Negrita sono se stessi, un gruppo nato in provincia che ha saputo navigare nelle acque limacciose del mainstrean senza mai snaturarsi. A mio avviso, sono una delle più belle realtà del nostro panorama musicale.
Come ho precisato sopra, c'è una buona parte della loro carriera che non ho seguito da vicino. Conosco invece molto bene i loro primi album, negli anni li ho letteralmente consumati. Sto parlando dell'esordio chiamato semplicemente Negrita (1994), del successivo XXX (1997), di Reset (1999) e infine Radio Zombie (2001). Non bisogna tuttavia dimenticare l'EP del 1995, Paradisi per illusi. I trent'anni esatti dalla pubblicazione del primo omonimo LP, recentemente ristampato, sono dunque un'occasione per ripercorrere una storia che ha lasciato una traccia profonda nel panorama rock nostrano degli anni Novanta.
XXX lo acquistai pochi mesi dopo la sua uscita, sull'onda del videoclip di Ho imparato a sognare, che continuo a considerare una delle più belle canzoni italiane degli ultimi trent'anni. È un disco ricco di bei pezzi, carico di un'urgenza espressiva a metà strada tra il rock americano e la tradizione melodica nostrana. E intanto il tempo passa, la traccia iniziale, è un pezzo solido e quadrato con un testo non banale. La title-track è un perfetto ritratto delle miserie e dell'ipocrisia della vita di provincia, mentre Io Pocahontas me la farei è un inno generazionale che oggi incontrerebbe la censura del pensiero unico. Sugli scudi anche A modo mio, un pezzo disimpegnato che profuma di strada e libertà. E ancora, Sex e In un mare di noia, per cui ogni parola sarebbe superflua.
Sebbene molti critici non siano d'accordo, ritengo che XXX sia un bel passo in avanti rispetto all'esordio, l'omonimo Negrita del 1994. Quest'ultimo è un album ancora acerbo, in cui sono evidenti le influenze blues (Ehi! Negrita) e persino grunge (Cambio); tuttavia il gruppo aretino non aveva ancora trovato una strada propria, tanto che il disco va a corrente alternata. D'impatto Bum bum bum e soprattutto R. J. (angelo ribelle), dedicata a Robert Johnson. C'è tuttavia qualche ingenuità nei testi, come in Militare, canzone che meno delle altre ha retto l'urto dei tempi. Qui e lì si iniziano a sentire i Negrita che verranno, come nella ballata Lontani dal mondo, il primo vagito della felice vena acustica della band.
Il terzo album, Reset, è per me fonte di tanti cari ricordi. Lo acquistai in formato musicassetta qualche mese dopo la sua pubblicazione, nell'agosto del 1999 alla Ricordi Mediastore di Salerno. Anni dopo lo ricomprai in cd. Il singolo trainante era Mama maé, un pezzo solido presentato con un videoclip accattivante. A mio avviso è un album bello dall'inizio alla fine, in cui dominano le chitarre elettriche di Mac e Drigo, come in Transalcolico, Negativo e In ogni atomo. Ancora una volta ci sono splendide ballate, come Life, Fragile e soprattutto la malinconica Hollywood, colonna sonora della mia estate del 1999.
«Ma uno straniero in fondo che ne sa
di come funziona e di come va.
E anche se i sogni in questo posto finiscono in vino,
anche se perdi sempre a tavolino,
qui non è Hollywood.»
Radio zombie lo acquistai all'uscita, eppure al momento non lo apprezzai particolarmente. Non ricordo le ragioni, so solo che lo ascoltai molto poco, forse superficialmente. Dopo averlo ripreso in mano di recente, posso dire che è un ottimo disco, forse l'apice della prima fase della loro carriera, sicuramente il più maturo. Non è quello a cui sono più legato, perché non ho ricordi particolari in merito, eppure lo ritengo tecnicamente e musicalmente superiore agli altri. Si tratta dell'ultimo lavoro con la formazione originaria al completo, con Zama alla batteria e Franco Li Causi al basso, formazione che qui raggiunge il massimo livello di affiatamento e maturità. Tre canzoni su tutte valgono il prezzo del biglietto: Bambole, Hemingway e 1992.