12 ottobre 2024

E intanto il tempo passa… I primi dischi dei Negrita

Ho sempre rispettato i Negrita, sebbene abbia seguito la loro carriera a fasi alterne. Li ho sempre rispettati perché penso che abbiano tracciato un percorso coerente, seppur ricco di svolte, di deviazioni, inversioni di tendenza e ritorni alle origini. Negli anni c'è stata la fase latino-americana, quella acustica e nuovamente quella elettrica; tuttavia, non me la sono mai sentita di parlare di tradimento, come sostenuto da qualche fan della prima ora. Trovo invece che la loro sia una strada coerente, quella di una rockband che, pur avendo raccolto molto, ha sempre mantenuto un profilo basso, con un'attitudine sincera che non è facile trovare in chi ha raggiunto il successo. Ho trovato sempre ingenerose, se non in malafede, le critiche per partito preso di alcuni autoproclamatisi "puristi" del rock che accusano Pau & soci di essere poco originali o addirittura finti, critica quest'ultima davvero fuori luogo.
Fermo restando che non esiste un patentino per essere rock, c'è da dire che la band aretina non ha mai assunto atteggiamenti da poser. Da più di trent'anni i Negrita sono se stessi, un gruppo nato in provincia che ha saputo navigare nelle acque limacciose del mainstrean senza mai snaturarsi. A mio avviso, sono una delle più belle realtà del nostro panorama musicale.
Come ho precisato sopra, c'è una buona parte della loro carriera che non ho seguito da vicino. Conosco invece molto bene i loro primi album, negli anni li ho letteralmente consumati. Sto parlando dell'esordio chiamato semplicemente Negrita (1994), del successivo XXX (1997), di Reset (1999) e infine Radio Zombie (2001). Non bisogna tuttavia dimenticare l'EP del 1995, Paradisi per illusi. I trent'anni esatti dalla pubblicazione del primo omonimo LP, recentemente ristampato, sono dunque un'occasione per ripercorrere una storia che ha lasciato una traccia profonda nel panorama rock nostrano degli anni Novanta.
XXX lo acquistai pochi mesi dopo la sua uscita, sull'onda del videoclip di Ho imparato a sognare, che continuo a considerare una delle più belle canzoni italiane degli ultimi trent'anni. È un disco ricco di bei pezzi, carico di un'urgenza espressiva a metà strada tra il rock americano e la tradizione melodica nostrana. E intanto il tempo passa, la traccia iniziale, è un pezzo solido e quadrato con un testo non banale. La title-track è un perfetto ritratto delle miserie e dell'ipocrisia della vita di provincia, mentre Io Pocahontas me la farei è un inno generazionale che oggi incontrerebbe la censura del pensiero unico. Sugli scudi anche A modo mio, un pezzo disimpegnato che profuma di strada e libertà. E ancora, Sex e In un mare di noia, per cui ogni parola sarebbe superflua.
Sebbene molti critici non siano d'accordo, ritengo che XXX sia un bel passo in avanti rispetto all'esordio, l'omonimo Negrita del 1994. Quest'ultimo è un album ancora acerbo, in cui sono evidenti le influenze blues (Ehi! Negrita) e persino grunge (Cambio); tuttavia il gruppo aretino non aveva ancora trovato una strada propria, tanto che il disco va a corrente alternata. D'impatto Bum bum bum e soprattutto R. J. (angelo ribelle), dedicata a Robert Johnson. C'è tuttavia qualche ingenuità nei testi, come in Militare, canzone che meno delle altre ha retto l'urto dei tempi. Qui e lì si iniziano a sentire i Negrita che verranno, come nella ballata Lontani dal mondo, il primo vagito della felice vena acustica della band.
Il terzo album, Reset, è per me fonte di tanti cari ricordi. Lo acquistai in formato musicassetta qualche mese dopo la sua pubblicazione, nell'agosto del 1999 alla Ricordi Mediastore di Salerno. Anni dopo lo ricomprai in cd. Il singolo trainante era Mama maé, un pezzo solido presentato con un videoclip accattivante. A mio avviso è un album bello dall'inizio alla fine, in cui dominano le chitarre elettriche di Mac e Drigo, come in Transalcolico, Negativo e In ogni atomo. Ancora una volta ci sono splendide ballate, come Life, Fragile e soprattutto la malinconica Hollywood, colonna sonora della mia estate del 1999.
«Ma uno straniero in fondo che ne sa
di come funziona e di come va.
E anche se i sogni in questo posto finiscono in vino,
anche se perdi sempre a tavolino,
qui non è Hollywood.»
Radio zombie lo acquistai all'uscita, eppure al momento non lo apprezzai particolarmente. Non ricordo le ragioni, so solo che lo ascoltai molto poco, forse superficialmente. Dopo averlo ripreso in mano di recente, posso dire che è un ottimo disco, forse l'apice della prima fase della loro carriera, sicuramente il più maturo. Non è quello a cui sono più legato, perché non ho ricordi particolari in merito, eppure lo ritengo tecnicamente e musicalmente superiore agli altri. Si tratta dell'ultimo lavoro con la formazione originaria al completo, con Zama alla batteria e Franco Li Causi al basso, formazione che qui raggiunge il massimo livello di affiatamento e maturità. Tre canzoni su tutte valgono il prezzo del biglietto: Bambole, Hemingway e 1992.

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