23 dicembre 2024

"Sogni di Bunker Hill" di John Fante: un testamento spirituale

Fa riflettere che un libro così pieno di vita sia stato scritto quasi in punto di morte. Quando John Fante dettò alla moglie Joyce il suo ultimo romanzo, era ormai cieco e privo di una gamba a causa del diabete. Fu pubblicato nel 1982 e un anno dopo il più grande degli scrittori italoamericani lasciò questo mondo.
Sogni di Bunker Hill è il capitolo conclusivo della saga di Arturo Bandini, alter ego dell'autore e suo personaggio più amato. Può essere letto anche senza conoscere gli altri romanzi con il medesimo protagonista. Io stesso ricordo poco di Chiedi alla polvere e La strada per Los Angeles, letti da adolescente, mentre ancora non ho avuto occasione di leggere Aspetta primavera, Bandini. Nato a Boulder in Colorado e figlio di immigrati italiani, Bandini è un aspirante scrittore di dubbio talento e pressoché di nessun successo, salvo qualche breve racconto pubblicato su rivista. In questa sua ultima avventura è ancora un giovane squattrinato che approda a Los Angeles e si stabilisce in un alberghetto del distretto di Bunker Hill. Il libro narra le sue peripezie alla ricerca di un lavoro, o meglio, di un posto al sole in un mondo che arride a quanti hanno il coraggio di rischiare. La sua carriera sembra decollare quando un racconto viene notato da un agente letterario; da cameriere diventa così correttore di bozze, iniziando una rapida (ma effimera) scalata sociale, ottenendo infine un invidiabile contratto come scrittore di sceneggiature.
Fante conosceva bene il mondo di Hollywood, per avervi lavorato a lungo come sceneggiatore. Il romanzo, al di là di un apparente disimpegno, è una feroce critica a quel mondo falso, spietato e fondato sul culto dell'apparenza. Già negli anni Venti l'industria cinematografica muoveva in America un giro d'affari colossale e Hollywood era la Mecca di quanti ambivano anche solo ad accarezzare il successo. Arturo è uno di questi e in poco tempo capisce che la regola è una soltanto: adeguarsi o soccombere. Accettare di firmare col proprio nome pessime sceneggiature per un pubblico di stolti, oppure vedersi sbattere porte in faccia ed essere additati come ingrati. C'è un punto del romanzo, a mio avviso il più significativo, in cui Bandini si impegna per settimane per scrivere una sceneggiatura soddisfacente; ci mette tutto se stesso e alla fine la completa e ne è orgoglioso. Quando però la sottopone al suo supervisore, viene completamente stravolta e trasformata in un filmaccio western di terzo ordine. Arturo si ribella e non vuole che il suo nome sia associato a quell'obbrobrio. Il sistema allora lo punisce: il film sbanca i botteghini e a lui non spetta un centesimo di diritti d'autore. La Hollywood descritta da Fante è un leviatano che ammazza il talento, a cui è inane opporsi nell'illusione di preservare la propria integrità. Chi ci prova viene additato come l'ennesimo illuso, un Don Chisciotte che sacrifica gli agi del successo pur di non prostituirsi al mercato.
Sogni di Bunker Hill è un romanzo struggente come una lettera d'addio che conclude una lunga storia d'amore. Leggero nello stile ma profondo nei significati, fa sorridere e riflettere, sferrando poi un colpo inaspettato nell'amarissimo finale. A ragione viene considerato il testamento spirituale di Fante, il suo libro della maturità e della consapevolezza, un inno alla bellezza della vita e al disincanto. Non a caso nel finale assistiamo al ritorno di Arturo in seno alla sua famiglia; sono poche pagine, eppure restituiscono un commosso ricordo dell'infanzia di Fante. Il ritorno alle origini di Arturo è il ritorno alle origini di John, che si sentiva vicino alla morte e forse al ricongiungimento con i suoi amati genitori; non bisogna infatti dimenticare che la religiosità semplice e contadina della madre e della nonna è un tema ricorrente nei suoi libri. Così Arturo torna nella vecchia casa in Colorado che profuma di buon cibo, di infanzia, di una terra lontana. E lì, ancora una volta, il velo dell'illusione cade e gli viene amaramente ricordato che lui sarà sempre un diverso, un italiano, un minus, un figlio di immigrati.

11 dicembre 2024

"Le trou", quando il cinema va all'essenza

A quanto pare, alla base del romanzo Le trou c'è una storia vera. Lo scrittore José Giovanni aveva infatti conosciuto in carcere Jean Keraudy, un vero e proprio asso delle evasioni. Si può quindi immaginare che nel corso delle lunghe giornate della detenzione Keraudy abbia raccontato al futuro scrittore e sceneggiatore i particolari delle sue rocambolesche fughe. Quelle storie sarebbero diventate prima un romanzo di successo e poi nel 1960 uno splendido film di Jacques Becker, alla sua ultima regia prima della prematura scomparsa. Le trou, in italiano semplicemente Il buco, è senza dubbio un capolavoro per ritmo, intensità, fotografia e recitazione. Per quanto sia una frase banale, mai come in questo caso è corretto dire che tiene lo spettatore incollato alla poltrona.
A Parigi, nel carcere de La Santé, quattro uomini languiscono in cella. Di loro sappiamo soltanto che sono detenuti in custodia cautelare per crimini gravi, in attesa del processo che dovrà celebrarsi in Corte d'Assise. Non conosciamo il loro passato, né i capi d'imputazione; ci vengono rivelati solo i nomi: Roland, Geo, Monsignore e Manu. Un giorno viene allocato nella cella un quinto prigioniero, Gaspard, accusato di aver tentato di uccidere la moglie. I quattro si vedono allora costretti a rivelare al nuovo giunto il loro segreto: in un punto del pavimento, che durante il giorno rimane coperto, hanno iniziato a scavare un buco che può condurli nei sotterranei della prigione e da lì verso la libertà, attraverso le fognature.
La storia è questa, semplice eppure avvincente: per oltre due ore seguiamo i cinque detenuti impegnati nella titanica impresa dell'evasione. Le inquadrature si concentrano sulle mani che scavano, sugli attrezzi rudimentali, sulla polvere, le pietre e i calcinacci. Tutta la pellicola è girata in interni, con pochissimi personaggi: oltre ai cinque protagonisti, ci sono gli agenti di custodia e il direttore. Assente persino la colonna sonora, il ritmo è scandito dai monotoni rumori della prigione: i passi delle guardie nei corridoi, i blindi che vengono chiusi, le serrature che scattano, gli accendini che crepitano, il tinnire delle scodelle. Anche i dialoghi sono ridotti all'essenziale e sono diverse le scene in cui la comunicazione avviene a gesti o sguardi, un codice di comunicazione carcerario riprodotto con grande realismo. La bellezza del film è proprio nell'essenzialità; Josè Giovanni e Jacques Becker bandirono ogni irrealistica retorica, in modo da costruire un'opera che fosse quanto più aderente alla realtà. Emblema di questa felice scelta è la battuta conclusiva. Sono qui costretto a rivelare il finale, per cui chi non ha ancora visto il film interrompa la lettura. Alla fine si consuma il tradimento da parte del giovane Gaspard, che cede alle lusinghe del potere e si lascia convincere dal direttore a rivelare tutto, probabilmente nell'illusione di poter ottenere qualche beneficio. Nell'ultima scena l'obiettivo si concentra sul viso espressivo di Roland, in mutande e circondato dagli agenti, con le mani alzate e la faccia contro il muro. Al passaggio del traditore volta la testa e, con uno sguardo colmo di commiserazione più che di odio, pronuncia due parole più dure di una condanna.
«Povero Gaspard!»
Due parole semplici, apparentemente insignificanti, in realtà traboccanti di significato. In quel "povero Gaspard" c'è al contempo rabbia e pietà, desiderio di vendetta e subitaneo perdono, senso di superiorità morale e compassione per la sorte del compagno traditore. Perché se è vero che ai quattro quasi fuggiaschi aspetta la cella di rigore e un procedimento disciplinare e penale, è tuttavia fuor di dubbio che essi abbiano mantenuto fino all'ultimo la loro dignità. Il povero Gaspard, invece, è tale perché non ha esitato a svendersi al sistema nella vana speranza di ottenere qualcosa. E invece, con ogni probabilità, al massimo otterrà una punizione più mite di quella comminata agli altri, magra consolazione sporcata dal marchio d'infamia. A mio avviso è proprio in questa battuta finale che emerge quell'essenzialità che ritengo sia il punto di forza de Il buco.
Le trou non è semplicemente un'avvincente pellicola riconducibile al sottogenere carcerario, ossia i cosiddetti prison movies. Oltre alla magistrale fotografia e alla bravura di tutti gli attori (tra cui lo stesso Keraudy, Philippe Leroy e Marc Michel), c'è qualcosa di più profondo. È infatti un inno nostalgico a valori universali come l'amicizia, la fedeltà, il rispetto, il cameratismo tra chi condivide la stessa triste sorte. Ecco perché lo spettatore, quasi involontariamente, si trova a fare il tifo per i cinque detenuti. Si è consapevoli che hanno commesso gravissimi reati e che l'evasione consentirà loro di sfuggire a una giusta punizione, eppure non si può fare a meno di sperare che l'impresa riesca. A differenza di altri film del genere, come ad esempio il recente Fuga da Pretoria, non ci troviamo di fronte a condanne ingiuste o errori giudiziari; anzi, nessuno mette in dubbio che siano tutti colpevoli. Purtuttavia ci si appassiona alla sorte di questi uomini, riconoscendo loro quantomeno il coraggio di sfidare la sorte contro ogni principio di ragionevolezza.
Un fotogramma del film. A sinistra, Jean Keraudy