Quando si parla di lotta contro l'apartheid, il pensiero corre inevitabilmente a Nelson Mandela, a Desmond Tutu e ai militanti dell'African National Congress. Si tende cioè a credere che fu una lotta esclusivamente della gente di colore. In realtà non è così, perché molti intellettuali o semplici cittadini bianchi fecero propria questa buona causa, pagando addirittura con il carcere. Gli attivisti bianchi erano ovviamente invisi alla classe dirigente, considerati ingrati e traditori. Ci voleva coraggio per abbandonare i privilegi di cui si godeva esclusivamente per il colore della pelle, abbracciando invece la causa degli esclusi e degli emarginati. Non dobbiamo infatti dimenticare che tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso il Sudafrica beneficiò di una crescita vertiginosa, che portò l'elite bianca a standard di ricchezza sovente superiori a quelli della classe media europea. Tuttavia era un sistema fondato sull'iniquità e la disuguaglianza, era il benessere di pochi a discapito della maggioranza che spesso sopravviveva al di sotto della soglia di povertà. Lo stesso accadde in Rhodesia, l'attuale Zimbabwe, che attuò una politica simile a quella del vicino Sudafrica, sebbene meno restrittiva per la maggioranza nera. Per questi motivi, essere bianco e condannare l'apartheid era una scelta coraggiosa e controcorrente, persino contro i propri interessi.
Tim Jenkin e Stephen Lee erano due di questi attivisti bianchi, protagonisti di una vicenda rocambolesca e persino comica che ai tempi fece appassionare l'opinione pubblica sudafricana. I due giovani erano iscritti al movimento clandestino dell'African National Congress ed erano specializzati in spettacolari azioni di propaganda. Il loro modus operandi era quantomeno bizzarro: piazzavano piccole cariche esplosive in luoghi affollati, che detonando lanciavano in aria centinaia di volantini inneggianti alla lotta contro la segregazione razziale. Erano azioni rumorose ma incruente: dopo lo shock iniziale per la piccola esplosione, la folla si accalcava a raccogliere i volantini e spesso nascevano manifestazioni estemporanee che impensierivano la polizia. Alla fine degli anni Settanta i due vennero arrestati in flagranza e condannati a dodici e otto anni di prigione, da scontare nell'istituto per detenuti politici bianchi di Pretoria. Ciò che li rese celebri non fu però l'arresto, ma l'incredibile fuga dal carcere che consentì loro di raggiungere lo Zambia e da lì l'Inghilterra.
Fuga da Pretoria, per la regia del promettente Francis Annan, è un film del 2020 che racconta i dettagli di questa originale evasione. Originale perché Jenkin e Lee non utilizzarono lime, armi, lenzuoli annodati, corruzione o altri metodi tradizionali. Loro optarono per una scelta azzardata che tuttavia si rivelò vincente: costruirono delle chiavi in legno per aprire le nove porte blindate che si frapponevano all'agognata libertà. L'operazione richiese studio e fatica per un anno e mezzo. Ogni occasione era buona per imprimere nella mente la forma delle chiavi che i secondini portavano appese alla cintola; poi, tornati in cella, i due riproducevano su carta il disegno delle chiavi che avevano memorizzato. Infine, nella falegnameria del carcere dove lavoravano, costruivano un rudimentale ma efficace duplicato in legno. E fu proprio grazie a quelle chiavi fatte in casa che guadagnarono infine la libertà.
Protagonisti del film sono Daniel Radcliffe, nel ruolo di Jenkin, e Daniel Webber in quello di Lee. Radcliffe in particolare ci regala un'interpretazione molto intensa ed è perfettamente calato nei panni di Jenkin; con questo film ha dimostrato di essere un attore ormai maturo, che merita di essere conosciuto non solo per Harry Potter. La pellicola è aderente alla storia vera, salvo qualche piccolo particolare, come ad esempio il personaggio inventato di Leonard Fontaine, pensato per aggiungere un tocco di ulteriore drammaticità alla storia. Tra i personaggi storicamente esistiti spicca l'attivista Denis Goldberg, che effettivamente scontò un lungo periodo in carcere per il suo impegno a favore della gente di colore.
Fuga da Pretoria è sostanzialmente un film d'azione, senza tuttavia eccessi di violenza. Anzi, pur mostrando la brutalità del regime sudafricano e delle sue carceri, il regista indugia soprattutto sulla minuziosa preparazione della fuga, regalando allo spettatore quasi due ore di piacevole tensione emotiva. Se volessimo trovare un punto debole, si potrebbe obiettare uno scarso approfondimento dei profili politici e ideologici della lotta contro l'apartheid. Ci sono alcune scene d'impatto, come quella in cui la guardia carceraria ordina all'inserviente di colore di raccogliere il vassoio caduto al detenuto, perché si tratta di “un lavoro da neri”. Questa scena mostra agli spettatori più attenti l'iniquità del regime sudafricano, in cui un dipendente di colore – e dunque un uomo libero – era considerato dall'istituzione carceraria subordinato persino a un detenuto. Manca però nel film una visione d'insieme della lotta contro l'apartheid, che magari avrebbe aiutato soprattutto le nuove generazioni a inquadrare meglio la vicenda.
Al di là di questo piccolo appunto, il film è godibile e merita di essere visto. Si inserisce in quel filone carcerario che tanto successo ha avuto in passato: si pensi solo a Il buco di Jacques Becker, oppure al celeberrimo Papillon. Il fatto che si tratti di una storia vera, e le modalità davvero originali della fuga, fanno sì che non si abbia mai l'impressione del “già visto”.
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