17 gennaio 2025

"Una scrittura femminile azzurro pallido" di Franz Werfel: una catastrofe umana

Mentre nel romanzo Nella casa della gioia Franz Werfel aveva descritto una società in crisi e un mondo in sfacelo, in questo libro egli si è fatto cronista di un disordine tutto individuale. Leonida, alto funzionario del Ministero dell'istruzione austriaco negli anni immediatamente precedenti l'Anschluss, conduce una vita altisonante come il suo nome. Proviene da una famiglia modesta e grazie a un insperato colpo di fortuna ha sposato Amelie Paradini, una delle donne più ricche del Paese. Ciò gli consente di vivere decisamente al di sopra di quanto gli permetterebbe il suo stipendio da impiegato pubblico. Un'esistenza all'apparenza priva di macchie che è messa in discussione il giorno in cui gli viene recapitata una lettera vergata con scrittura femminile azzurro pallido, da cui il titolo del romanzo. Leonida riconosce subito la mittente, prima ancora di aprire la busta: la missiva è stata scritta da una sua vecchia amante. Sono i fantasmi del passato che si fanno inaspettatamente avanti, rischiando di compromettere l'esistenza agiata del funzionario statale.
Il protagonista è un eroe negativo, in quanto presenta tutti i vizi di certi esponenti della classe dirigente: è dozzinale, fedifrago, calcolatore, cinico, schiavo del dio denaro. Egli è l'incarnazione del parvenu, un uomo tutto sommato mediocre che ha raggiunto la ricchezza e una posizione sociale invidiabile grazie a un matrimonio fortunato. Eppure anche a lui viene offerta un'opportunità di redenzione; proprio quando la sua vita sembra inesorabilmente incardinata nei binari dell'agiatezza e del conformismo, l'arrivo della missiva lo pone di fronte a un bivio. Disinteressarsene distruggendola, come già aveva fatto nel passato, oppure aprirla e rispondere all'esortazione di aiuto ivi contenuta, rischiando tutto in un lancio di dadi. Nessuno può aiutarlo a trovare una soluzione, perché certi rovelli bisogna affrontarli da soli. Tuttavia Leonida non sa cogliere l'estrema opportunità celata tra le pieghe della lettera. E così l'ultima speranza di redenzione si dissolve, lasciandolo più solo e colpevole, a ennesima conferma della sua inettitudine morale.
Franz Werfel (1890-1945) ha dimostrato con questo romanzo di essere stato uno dei più fini narratori della sua generazione, in grado come pochi di trascrivere su carta paure, ossessioni e idiosincrasie dell'uomo europeo a cavallo tra i due conflitti mondiali. Cantore poco conosciuto della finis Austriae, in realtà non aveva nulla da invidiare a grandi contemporanei come Joseph Roth o Arthur Schnitzler.
Tutto il libro ruota intorno a tre soli personaggi principali, attorniati da una manciata di comparse. Leonida è una figura che ispira antipatia sin dalle prime pagine e con l'incedere della storia la prima impressione è confermata e anzi rafforzata. La moglie Amelie è una donna insulsa, piagnucolosa, succube dei capricci del marito e incapace di slanci vitali. Poi c'è la misteriosa autrice della lettera che, nonostante appaia soltanto nelle pagine finali, lascia il segno più profondo nel ricordo del lettore, in quanto è lei il vero deus ex machina dell'azione. E infine c'è Vienna, quasi un quarto personaggio, descritta da Werfel con pochi rapidi tocchi, perché se è vero che la vicenda si svolge quasi tutta in interni, gli scorci della città che si intravedono dalle finestre bastano per costruire uno scenario di grande fascino.
Una scrittura femminile azzurro pallido è la storia di un tormento, nonché un'impietosa critica al culto tutto borghese dell'apparenza e all'ipocrisia che spesso si cela dietro i rapporti umani, soprattutto tra i membri della classe dirigente. Werfel osserva con sguardo lucido e spietato la catastrofe umana del suo protagonista, senza tuttavia assumere toni moraleggianti o paternalistici. Il narratore non giudica, lascia che sia Leonida a firmare ed eseguire la sua stessa condanna, quella di un uomo che acquisisce consapevolezza quando è ormai troppo tardi e il fuoco è morto sotto la cenere. Il libro raggiunge dunque il suo punto più alto nello struggente finale, in cui Leonida, seduto su una poltrona del teatro, cade preda di un sonno convulso e animato da fantasmi. Sono i ricordi e le opportunità del passato, tutte quelle che non ha saputo cogliere e che non torneranno più. A lui, però, uomo mediocre e incapace di un sentire poetico, non resta neppure la gozzaniana consolazione del malinconico rimpianto, il «non amo che le rose che non colsi, non amo che le cose che potevano essere e non sono state».

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