In ogni letteratura nazionale ci sono dei tòpoi, motivi e tematiche ricorrenti che in qualche modo definiscono lo spirito di un popolo, o comunque sono di ispirazione per quanti hanno l'incarico gravoso di farsi portavoce del sentimento nazionale, ossia scrittori e poeti. Di solito si tratta di vicende pubbliche significative che hanno segnato un dato periodo storico; raramente eventi lieti, quasi sempre tragedie collettive. In Italia il tòpos d'eccellenza della letteratura novecentesca è la Resistenza, per Spagna e Portogallo la lunga dittatura, per l'Austria è inevitabilmente la fine dell'Impero asburgico. La finis Austriae è l'evento con cui si sono confrontati tutti i principali autori austriaci (e in misura minore cechi e ungheresi), da Lernet-Holenia a Schnitzler, da Joseph Roth a Werfel, per citarne solo alcuni. Il crollo dell'Impero austro-ungarico ha rappresentato la linea di demarcazione tra un passato glorioso e un futuro fosco e decadente, culminato con l'Anschluss.
La letteratura ha la capacità di captare lo sgomento di una nazione sublimandolo in arte; e ciò avvenne precisamente in Austria dopo il 1919. La fine della monarchia generò stagnazione economica e una strisciante crisi politica, ma soprattutto fece maturare in molti – specialmente aristocratici, militari, artisti e commercianti – una nostalgica melanconia per un passato aureo definitivamente tramontato. Una tragedia collettiva, dunque, l'amara consapevolezza di un'antica gloria destinata ad annegare nella volgarità del presente.
Tra le opere che raccontano questo passaggio cruciale, va segnalato il romanzo breve, o racconto lungo che dir si voglia, Nella casa della gioia. In verità Franz Werfel nacque a Praga nel 1890, primogenito di una famiglia ebraica mediamente agiata. Tuttavia era germanofono e la sua carriera di intellettuale decollò dopo la Prima guerra mondiale, con il trasferimento a Vienna. Abbandonò l'amata città dopo l'annessione dell'Austria alla Germania nazista, peregrinando tra la Francia e gli Stati Uniti, dove spirò nel 1945.
Nella casa della gioia non è la sua opera principale, eppure è un libro godibile che si legge d'un fiato e si fa apprezzare per stile e contenuti. La prospettiva da cui viene osservata la fine dell'Impero asburgico è quella di una casa di piacere, il rinomato casino di Via del Camoscio, un antico locale fondato, secondo la leggenda, da un membro della Casa reale. I suoi clienti appartengono alle classi altolocate: aristocratici, militari, magistrati, alti funzionari pubblici, ricchi commercianti. In parole povere, è un postribolo d'alto bordo. Werfel ricostruisce in sole cento pagine l'atmosfera del luogo, presentando al lettore uno straordinario caleidoscopio di personaggi, ossia clienti, prostitute e gerenti. Il casino è un microcosmo, uno specchio della società gaudente dell'ultimo scorcio dell'Impero asburgico. Non c'è una trama vera e propria: ciò che interessava allo scrittore era offrire un fedele ritratto di un luogo e un'epoca irripetibili, nonché dei personaggi che l'animavano. Ci sono delle sottotrame accennate, come la storia d'amore tra la sfuggente Ludmilla e il cupo Oskar, ma il fulcro del romanzo è un altro, ovvero il raccontare gli ultimi giorni del casino di Via del Camoscio, coincidenti per uno straordinario sincronismo con gli ultimi palpiti dell'Impero. La sera del 28 giugno 1914, infatti, l'atmosfera libertina del bordello è scossa dalla notizia dell'assassinio a Sarajevo dell'arciduca Francesco Ferdinando, di fatto il casus belli che diede il via alla Prima guerra mondiale. Negli stessi giorni muore improvvisamente anche Maxl, proprietario dell'appartamento di Via del Camoscio e tenutario della casa di piacere. In una delle scene più emblematiche e simboliche del libro, il catafalco del povero Maxl è innalzato nella Sala Grande del postribolo, divenuta camera ardente.
«E ancora una volta trascorse, inavvertito, uno di quei momenti che sono saturi delle contraddizioni sublimi, shakespeariane, della vita.»
La dipartita di Maxl di fatto chiude il romanzo e al tempo stesso è una morte simbolica, perché con lui si inabissa «un'epoca gioconda, serena e spensierata che ormai giaceva nella bara, per scomparire per sempre».
Nella casa della gioia è, a mio modesto avviso, un gioiellino della letteratura del primo Novecento, ingiustamente dimenticato e negletto dai più. Sfido altri scrittori, anche più blasonati e celebri, a saper riassumere il sapore pieno e il senso più profondo di un'epoca in appena cento pagine. Werfel c'è riuscito, adottando per giunta l'originale punto di osservazione di una casa di tolleranza elevata a istituzione pubblica. Se a ciò aggiungiamo il tono confidente e complice della narrazione, come se l'io narrante sussurrasse all'orecchio del lettore, possiamo affermare senza tema di smentita che si tratta di un piccolo capolavoro.
Un'edizione TEA degli anni Novanta
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