21 marzo 2025

E cadrà una nevicata di stelle: gli ultimi versi di Sergio Corazzini

Niente è più stucchevole di certi epitaffi: lunghi, verbosi, patetici, fanno quasi venire in odio il morto. Meglio, molto meglio, la sintesi. C'è quella estrema dei King Crimson: «"confusion" will be my epitaph», cantava semplicemente Greg Lake, racchiudendo in una sola parola il sunto di una vita. Oppure c'è quella meno estrema ma altrettanto potente di John Keats, che sulla sua tomba al Cimitero Acattolico di Roma fece scrivere «here lies one whose name was writ in water». E infine c'è questo, un epitaffio che coglie con poche secche parole l'essenza di una vita breve ma intensa.
«Per chi ricorda. Sergio Corazzini, poeta. A vent'anni, il 17 giugno 1907»
Chi ha ordinato l'epitaffio avrebbe potuto sdilinquirsi in lunghi incensamenti, sperticarsi in lodi esagerate su quello che è stato indubbiamente uno dei più formidabili e precoci talenti poetici del nostro primo Novecento. E invece, non facendolo, ha dimostrato di volere davvero bene al povero Sergio. Già l'incipit è un colpo al cuore, in perfetto stile crepuscolare: "per chi ricorda". I poeti crepuscolari non anelavano alla gloria o alla riconoscenza universale; la loro era la poesia dell'effimero, delle cose che rimangono a impolverarsi nelle case chiuse, finché non se ne perde perfino il ricordo. Al tempo stesso l'incipit è un complice ammiccamento ai pochi che effettivamente lo ricordano, membri di un club ristretto ma eletto. Il resto è tutto quello che rimaneva da dire: un poeta morto a vent'anni, il 17 giugno 1907. Corazzini nacque in una famiglia agiata ma, a causa di alcune errate speculazioni paterne, si ritrovò presto in miseria. Iniziò a lavorare come impiegato in una compagnia di assicurazioni, senza poter terminare gli studi; contemporaneamente partecipò alla vita culturale romana e collaborò con riviste e periodici inviando poesie. Si spense ad appena vent'anni, a causa della tubercolosi.
Per quanto la sua breve esistenza incarni al meglio certi cliché del poeta, Corazzini non si definiva tale. «Perché tu mi dici: poeta?», scriveva in una delle sue liriche più celebri. Eppure, per comprendere quanto Sergio fosse un grande poeta, non serve conoscere la sua opera omnia, né addentrarsi in saggi letterari più o meno complessi. Basta invero leggere con attenzione la sua ultima poesia, La morte di Tantalo, scritta pochi mesi (o forse giorni) prima di morire, pubblicata postuma su Vita letteraria del 28 giugno 1907. È indubbiamente la sua opera più matura, dolorosamente coincidente con un testamento spirituale.
La scena si apre su un giardino, un hortus conclusus di tradizione bucolica dove il poeta è in compagnia di una donna. I due siedono sul bordo di una fontana che abbellisce una vigna dorata, non sappiamo se per il colore dei grappoli o per la luce del giorno morente. La ragazza piange e le sue palpebre sono gonfie di lacrime, simili alle vele di una nave sferzate da una leggera brezza. Anche il poeta al suo fianco condivide lo stesso dolore, eppure non sa dargli un nome. La loro non è sofferenza d'amore, né carnale o di malinconia; semplicemente si sentono morire ogni giorno che passa senza riuscire a rinvenire la causa del male.
Arriva la notte e la vigna d'oro scompare sotto la coltre di un'oscurità così densa e opprimente che, volgendo gli occhi al cielo, appare «una nevicata di stelle». La nevicata di stelle è un'immagine potentissima, forse l'apice della lirica e dell'intera produzione di Corazzini. È qui che il giovane romano si dimostra poeta, nell'aver saputo costruire una grandiosa metafora con due semplici parole della vita quotidiana, un articolo e una preposizione.
Prima di addormentarsi sotto il cielo stellato, i due assaporano i grappoli della vigna d'oro e bevono l'acqua dolce della fontana. Così facendo, contravvengono alle leggi divine che non permettono di mangiare quei frutti e di abbeverarsi alla fontana. Ed ecco che arriva il mattino e i due si ritrovano ancora seduti sull'orlo della fontana, «nella vigna non più d'oro». A questo punto gli oscuri simbolismi di cui il testo è ricco diventano chiari: il giardino è una sorta di luogo di transito, dove le "anime" (la parola ricorre nel testo) devono stazionare prima della vita eterna, negata tuttavia a chi contravviene alle severe disposizioni divine. Il poeta e la ragazza, violando le regole del giardino, si sono negati la morte, vista come una nuova e più piena rinascita, per cui la loro condanna sarà quella di vivere per sempre, errando nel mondo senza una meta e senza poter estinguere quel fuoco di melanconia che solo in un altrove si sarebbe finalmente spento.
«E aggiungi che non morremo più
e che andremo per la vita
errando per sempre.»
Il supplizio del poeta è simile a quello di Tantalo, condannato per l'eternità ad avere fame e sete implacabili, pur essendo immerso in una pozza d'acqua dolce e avendo a portata di mano un albero colmo di frutti. A causa dei suoi misfatti gli dèi hanno ordito una crudele condanna: quando prova a bere, il lago si prosciuga, quando tenta di afferrare i frutti, questi si allontanano. La differenza tra Tantalo e il poeta è tuttavia abissale, perché mentre il primo ha trasgredito le leggi degli dèi, il secondo non ha colpe. L'esistenza di Corazzini è segnata dalla tubercolosi, una condanna senza processo che in quegli anni mieteva tante giovani vittime. Tuttavia egli non crede che il destino infausto sia casuale. Vuole trovare un senso a questa esistenza colma di un dolore che poeticamente sente di aver meritato; ecco che il soggiorno nel giardino dalla vigna d'oro diventa metafora della colpa. Una colpa scontata vivendo ed errando per sempre.
La morte di Tantalo è un testo talmente ricco e complesso da non credersi che sia stato scritto da un ventenne che vedeva nella morte, quasi chiamata per nome, un sollievo alla propria esistenza minata dalla sofferenza e dalla malattia. Una morte invero intesa come rinascita, anche nell'ottica del pensiero cristiano. Aggiungo che gli ultimi versi sono una profezia, perché Sergio Corazzini non è mai davvero morto, se a distanza di oltre cent'anni la sua voce giunge ancora forte e chiara a chi la vuol sentire.
Un angolo di Villa Celimontana, Roma

8 marzo 2025

"La scala a chiocciola": l'incubo vestito di decoro

Gialli e thriller non sono tra i miei generi preferiti, né in letteratura né al cinema. Ciò non toglie che ogni tanto li apprezzi, sebbene non me ne intenda particolarmente. Al più mi piacciono le ambientazioni, soprattutto quelle cittadine plumbee e notturne di certi noir, oppure le desolazioni delle immense campagne dove per chilometri non si incontra anima viva. In parole povere, più che scoprire chi è l'assassino, mi intriga il contesto in cui avvengono i fatti, spesso più interessante della trama. L'avita magione è uno dei luoghi classici in cui vengono ambientate queste storie. Una casa antica, isolata, decadente, polverosa e abitata da oscure presenze è la scenografia ideale di questo tipo di narrazioni; si pensi a titolo di esempio alla Casa Usher del celebre racconto di Edgar Allan Poe.
È dunque per questo interesse, sia pur mediato, che ho visto La scala a chiocciola, film statunitense del 1946 per la regia di Robert Siodmak, considerato uno dei capostipiti del thriller cinematografico. Ammetto la mia ignoranza, in quanto non conoscevo il lungometraggio; l'ho scoperto leggendo uno degli ultimi numeri di Martin Mystère, in cui se ne consigliava appunto la visione.
La trama è semplice ma d'impatto, considerando soprattutto l'anno di produzione. Un piccolo centro della provincia americana da qualche tempo sta vivendo un incubo: c'è un assassino seriale che uccide solo donne che presentano una qualche forma di disabilità. La giovane Elena, muta a seguito di un terribile shock, sembra essere la prossima vittima predestinata. Sola al mondo e fragile per l'incapacità di parlare e chiedere aiuto, viene caldamente invitata a rimanere chiusa nella casa dove lavora come domestica, fin quando l'assassino non verrà arrestato. Purtroppo, però, è proprio in quella casa signorile che vive il mostro.
Questa a grandi linee la storia, senza voler svelare troppi particolari. Nonostante siano passati quasi ottant'anni dalla sua uscita, il film mantiene ancora oggi un suo fascino e non solo per ragioni "archeologiche". Vero è che può essere considerato l'archetipo di un genere e ciò solo basterebbe per giustificarne la popolarità fino ai giorni nostri. Si può infatti affermare che ne La scala a chiocciola compaia forse per la prima volta quella figura dell'assassino seriale che tanta fortuna cinematografica avrà nei decenni successivi, soprattutto nelle produzioni statunitensi. Eppure, a mio avviso, il punto di forza del film non è questo, non sta nella capacità di condensare elementi classici del brivido e proiettarli nel futuro. Ciò è sicuramente vero, tuttavia non sufficiente. Mi sono dunque chiesto come faccia un film così vecchio a tenere incollato lo spettatore alla poltrona, senza una sola goccia di sangue e senza scene particolarmente crude o impressionanti.
Ciò che lo rende un capolavoro è la perizia tecnica del regista negli straordinari giochi di luci e ombre che creano un clima continuo di strisciante tensione. Si considerino le scene ambientate nella cantina: di fatto non succede nulla o quasi, eppure un brivido corre lungo la schiena dello spettatore, convinto che dietro ogni pilastro o in ogni angolo oscuro si nasconda un pericolo mortale. Il grandioso bianco e nero fa il resto, dimostrando, se mai ce ne fosse bisogno, di essere l'unica perfetta forma di rappresentazione visiva per questo genere di opere.
Tornando a quanto detto all'inizio, La scala a chiocciola utilizza il grande topos dell'antica magione, non più mera scenografia ma vero e proprio personaggio. La labirintica casa Warren è in questo senso perfetta: in stile vittoriano, piena zeppa di ogni sorta di arredi, quadri e chincaglierie, è composta da ampi saloni, stanze più piccole, anditi oscuri, lunghi corridoi e spazi più modesti dedicati alla servitù. Il suo cuore è però rappresentato dalla scala a chiocciola che parte dal piano nobile e conduce agli scantinati. È proprio su questa scala che si consuma la doppia tragedia conclusiva, preambolo al lieto fine, forse non troppo originale ma coerente coi gusti dell'epoca. Il senso di piacere visivo delle prime scene si trasforma gradualmente in un'opprimente sensazione di claustrofobia; solo alla fine arriviamo a comprendere che è la casa stessa il cuore del male, con i suoi tappeti, arazzi, arredi, quadri, caminetti, soprammobili e poltrone, utili soltanto a dare all'incubo una veste di decoro.
Per chi fosse interessato, il film è in libera visione su YouTube. Vale la pena vederlo, se non altro per ammirare la "grazia innaturale" della bella Dorothy McGuire (per dirla alla Battiato) e lo straordinario pathos di Ethel Barrymore nel ruolo della vecchia Lady Warren.
Elena (Dorothy McGuire) sulla celebre scala