Gialli e thriller non sono tra i miei generi preferiti, né in letteratura né al cinema. Ciò non toglie che ogni tanto li apprezzi, sebbene non me ne intenda particolarmente. Al più mi piacciono le ambientazioni, soprattutto quelle cittadine plumbee e notturne di certi noir, oppure le desolazioni delle immense campagne dove per chilometri non si incontra anima viva. In parole povere, più che scoprire chi è l'assassino, mi intriga il contesto in cui avvengono i fatti, spesso più interessante della trama. L'avita magione è uno dei luoghi classici in cui vengono ambientate queste storie. Una casa antica, isolata, decadente, polverosa e abitata da oscure presenze è la scenografia ideale di questo tipo di narrazioni; si pensi a titolo di esempio alla Casa Usher del celebre racconto di Edgar Allan Poe.
È dunque per questo interesse, sia pur mediato, che ho visto La scala a chiocciola, film statunitense del 1946 per la regia di Robert Siodmak, considerato uno dei capostipiti del thriller cinematografico. Ammetto la mia ignoranza, in quanto non conoscevo il lungometraggio; l'ho scoperto leggendo uno degli ultimi numeri di Martin Mystère, in cui se ne consigliava appunto la visione.
La trama è semplice ma d'impatto, considerando soprattutto l'anno di produzione. Un piccolo centro della provincia americana da qualche tempo sta vivendo un incubo: c'è un assassino seriale che uccide solo donne che presentano una qualche forma di disabilità. La giovane Elena, muta a seguito di un terribile shock, sembra essere la prossima vittima predestinata. Sola al mondo e fragile per l'incapacità di parlare e chiedere aiuto, viene caldamente invitata a rimanere chiusa nella casa dove lavora come domestica, fin quando l'assassino non verrà arrestato. Purtroppo, però, è proprio in quella casa signorile che vive il mostro.
Questa a grandi linee la storia, senza voler svelare troppi particolari. Nonostante siano passati quasi ottant'anni dalla sua uscita, il film mantiene ancora oggi un suo fascino e non solo per ragioni "archeologiche". Vero è che può essere considerato l'archetipo di un genere e ciò solo basterebbe per giustificarne la popolarità fino ai giorni nostri. Si può infatti affermare che ne La scala a chiocciola compaia forse per la prima volta quella figura dell'assassino seriale che tanta fortuna cinematografica avrà nei decenni successivi, soprattutto nelle produzioni statunitensi. Eppure, a mio avviso, il punto di forza del film non è questo, non sta nella capacità di condensare elementi classici del brivido e proiettarli nel futuro. Ciò è sicuramente vero, tuttavia non sufficiente. Mi sono dunque chiesto come faccia un film così vecchio a tenere incollato lo spettatore alla poltrona, senza una sola goccia di sangue e senza scene particolarmente crude o impressionanti.
Ciò che lo rende un capolavoro è la perizia tecnica del regista negli straordinari giochi di luci e ombre che creano un clima continuo di strisciante tensione. Si considerino le scene ambientate nella cantina: di fatto non succede nulla o quasi, eppure un brivido corre lungo la schiena dello spettatore, convinto che dietro ogni pilastro o in ogni angolo oscuro si nasconda un pericolo mortale. Il grandioso bianco e nero fa il resto, dimostrando, se mai ce ne fosse bisogno, di essere l'unica perfetta forma di rappresentazione visiva per questo genere di opere.
Tornando a quanto detto all'inizio, La scala a chiocciola utilizza il grande topos dell'antica magione, non più mera scenografia ma vero e proprio personaggio. La labirintica casa Warren è in questo senso perfetta: in stile vittoriano, piena zeppa di ogni sorta di arredi, quadri e chincaglierie, è composta da ampi saloni, stanze più piccole, anditi oscuri, lunghi corridoi e spazi più modesti dedicati alla servitù. Il suo cuore è però rappresentato dalla scala a chiocciola che parte dal piano nobile e conduce agli scantinati. È proprio su questa scala che si consuma la doppia tragedia conclusiva, preambolo al lieto fine, forse non troppo originale ma coerente coi gusti dell'epoca. Il senso di piacere visivo delle prime scene si trasforma gradualmente in un'opprimente sensazione di claustrofobia; solo alla fine arriviamo a comprendere che è la casa stessa il cuore del male, con i suoi tappeti, arazzi, arredi, quadri, caminetti, soprammobili e poltrone, utili soltanto a dare all'incubo una veste di decoro.
Per chi fosse interessato, il film è in libera visione su YouTube. Vale la pena vederlo, se non altro per ammirare la "grazia innaturale" della bella Dorothy McGuire (per dirla alla Battiato) e lo straordinario pathos di Ethel Barrymore nel ruolo della vecchia Lady Warren.
Elena (Dorothy McGuire) sulla celebre scala
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