26 ottobre 2015

Il canto crepuscolare dei C.F.F.

C.F.F. e il Nomade Venerabile ha rappresentato una delle realtà musicali più interessanti e originali degli ultimi quindici anni, soprattutto per la capacità di unire rock, danza e teatro in trascinanti esibizioni live. Ricordo di averli visti nel 2006 al festival Today I’m rock di Capaccio, quando presentarono i brani del loro EP Ghiaccio, impressionandomi per la tecnica e, soprattutto, per i suggestivi effetti scenici. Sembrava di assistere ad una performance dei CCCP degli anni migliori, quelli di Annarella e Fatur, per intenderci.
Canti notturni è il primo album a marchio (semplicemente) C.F.F., pubblicato ad ottobre 2015 per l’etichetta Maxsound Records. É un lavoro di svolta, non solo perché la formazione è ridotta a tre elementi, ma perché Anna Maria Stasi (voce e tastiere), Anna Surico (chitarre e sequenze) e Vanni La Guardia (alla sezione ritmica) hanno scelto coraggiosamente di operare una cesura rispetto al passato, che tuttavia non è abiurato, ma echeggia nelle nove tracce che compongono il disco.
Evocativo il titolo, che già suggerisce le atmosfere in cui l’ascoltatore sarà calato. Occorre però sgombrare il campo da un preconcetto. La notte raccontata dai C.F.F. non è il luogo della paura, la ragnatela perversa degli esorcismi umani, ma è il momento in cui i ricordi più intensi vengono a trovarci, dove l’uomo svela la propria natura, senza infingimenti. Si potrebbe dire, per quanto possa apparire una contraddizione, che la notte nasconde ogni cosa ma rivela l’uomo a se stesso, culla la sua umanità e la palesa. Non per nulla il titolo richiama un fondamentale caposaldo della nostra letteratura, quel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi, che, per la complessità strutturale e pregnanza di significati, viene ad assumere una valenza più filosofica che lirica. D’altronde, i C.F.F. credono in una musica “istruita”, lontana dal puro intrattenimento, che abbia la capacità di raccontare l’uomo com’è, spogliato dalle sovrastrutture. Si considerino i versi di Stelle nere, seconda traccia dell’album: “Abbandonate dalla luna / le stelle rare si tuffano nel mare / luci gemelle nel riflesso / danzando libere sul precipizio dell’abisso. / E non c’è niente che mi faccia stare in pace con il mondo / come quel canto furibondo”.
I C.F.F. propongono una melodia diversa, di non facile presa, ma al tempo stesso niente affatto ostica. C’è sperimentazione, ma questa è ricondotta entro i binari di un’elettronica non invasiva, delicato tappeto sonoro al servizio di uno splendido canto. Sebbene non manchino richiami alla musica popolare (pur non potendosi parlare di revival folk), si potrebbe parlare di un disco di cantautorato colto, filtrato da una sensibilità tutta contemporanea, che predilige il dato intimista a quello civile.
Se proprio dovessi fare dei paragoni, tre sono gli artisti che mi vengono in mente. La prima è Alice dei grandi album di fine Ottanta – inizio Novanta (su tutti, Park hotel e Il sole nella pioggia); si ascolti in proposito la seconda traccia, l’eterea Quando viene marzo. In Forse, invece, si sente qualche eco di musica popolare, con i Musicanova di Eugenio Bennato quale possibile punto di riferimento. Infine, la proposta musicale dei rinnovati C.F.F. si avvicina agli Spain di Josh Haden, band che più di ogni altra ha portato avanti la bandiera di un rock colto, minimale, diretto all’essenzialità del suono.
Sorprendente l’inizio di Un paese innocente, con quei versi destinati a rimanere a lungo nella mente: “Nel paese dove sei falena / non hai squame sulle ali / ma polvere da sparo”. Il testo è criptico, ma nella mia interpretazione personale ho visto nel “paese innocente” una rappresentazione dell’Italia, così come è diventata. Il Paese degli amori che corrono sulle linee telefoniche, delle piazze pacifiche e delle “percosse democratiche” (forse un riferimento a recenti fatti di cronaca, che hanno visto coinvolti uomini delle istituzioni?). Il brano viene poi proposto anche in una versione alternativa, intitolata Un solo minuto di vita, caratterizzata da sottili divagazioni elettroniche ed un uso più corposo dei campionamenti.
Degne di nota sono poi Quando viene marzo, che si regge su improvvise aperture armoniche, e In assenza di gravità, con un impiego più evidente delle chitarre elettriche, che strizza l’occhio alle esperienze contemporanee della musica indie.
Segue Come fiori, una canzone sull’olocausto dei rom e dei sinti. È dedicata a Johann Trollmann, meglio noto come Rukelie (l’Albero), pugile tedesco di origine sinti, ucciso nel 1943 in un campo di concentramento. Una storia poco nota, che si aggiunge all’orrore che già conosciamo. La triste parabola del pugile diviene così “pretesto” per raccontare l’eccidio di un intero popolo. E colpiscono davvero al cuore le parole del ritornello: “Noi sinti siamo come fiori / ci possono strappare / o lasciare a seccare / ma vivi di colori sempre / noi sinti non possiamo / che ritornare”. E anche qui si ritorna alla metafora della notte, vista questa volta come obnubilamento della coscienza umana; d’altronde, non si intitola proprio La notte un celebre romanzo di Elie Wiesel, una delle più crude testimonianze sulla barbarie nazista?
Chiude l’album Il mio inverno, il cui oscuro inizio lascia gradualmente il passo ad una luminosa ballata: “Se potessi fermarmi / resterei in quell’angolo di mondo / dove si può osservare tutto / senza essere visti / e tu / saresti il mio tutto”.
In sostanza, quello che i C.F.F. propongono è un canto crepuscolare, un momento di cauta riflessione, la colonna sonora dell’imbrunire che lascia il passo all’incedere della notte. Da ascoltare più volte, per cogliere tutte le suggestioni che nasconde. Così classico, eppure così dannatamente contemporaneo.

La copertina del disco

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