Il resto di niente è
un episodio isolato nella storia della letteratura italiana del secondo
Novecento, un’opera fuori moda e fuori dal tempo, di commovente, struggente
bellezza. Pochi libri hanno la capacità di eguagliarlo per potenza evocativa,
precisione della ricostruzione storica, abilità nella successione dei registri
linguistici, dal popolare al colto. Superficialmente si potrebbe dire che si
tratta di un romanzo storico, la biografia di Eleonora Pimentel Fonseca e il resoconto
del sogno repubblicano napoletano del 1799. In realtà, è molto di più e per
almeno due ragioni. La prima è che, come scrisse lo stesso Striano, “tutti i
romanzi sono storici, così come tutti sono sperimentali”, in quanto ciò che
differenzia gli uni dagli altri è il grado di libertà che lo scrittore si è
preso nell’esporre i fatti. In secondo luogo, confinarlo entro stringenti
limiti geografici (Napoli), storici (gli anni della Rivoluzione francese) e
sociologici (la “meridionalità”), costituirebbe un grave e imperdonabile
torto. Il libro possiede infatti l’ampio respiro dei capolavori che trattano
temi universali, perché, come evidenziato da Francesco Durante, “è un romanzo
di uomini e di donne, non di personaggi storici chiusi ciascuno nella propria
miniatura fissata per la posterità”.
La protagonista,
Eleonora Pimentel Fonseca (Lenòr in portoghese, Lionora in napoletano),
apparteneva ad una famiglia nobile portoghese, costretta a fuggire da Roma a
causa degli attriti tra la Santa Sede e il Re lusitano, che aveva cacciato i
potenti Gesuiti dal territorio del suo Regno. Riparata nelle Due Sicilie, per
la precisione a Napoli, la famiglia Pimentel Fonseca dovette costruirsi una
nuova vita. Eleonora, dotata di spiccatissima intelligenza e talento poetico,
già giovanissima entrò a far parte dei salotti e dei circoli intellettuali
della Capitale, fino a diventare accademica d’Arcadia. Accanto all’amore per le
lettere, però, si sviluppò in lei un’accesa passione politica. Erano gli anni
della Rivoluzione francese, del giacobinismo, dell’affermazione dei nuovi
ideali egualitari in contrapposizione alla tirannide e alle disuguaglianze
sociali dell’ancien regime. Anche a Napoli soffiava il nuovo vento degli
ideali, grazie ad illuminati pensatori come Filangieri e Genovesi; si affermarono
così i circoli giacobini, che vedevano nella Francia la grande madre di ogni
libertà. Re Ferdinando e sua moglie Maria Carolina, spalleggiati
dall’aristocrazia più retriva e da gran parte del clero, iniziarono una
spietata persecuzione dei giacobini, con l’intento di estirpare il “germe” della
rivolta dal Regno. Eppure, anche in Napoli il sogno rivoluzionario si realizzò,
sia pure per pochi mesi, quando nel 1799 venne proclamata l’effimera Repubblica
Napoletana. Lenòr ne fu una delle principali artefici, quale direttrice e unica redattrice del giornale ufficiale, il Monitore napolitano (sul modello
del Moniteur d’oltralpe).
Il romanzo non è
un’apologia della parentesi repubblicana, né, più in generale, una pervicace
difesa delle idee rivoluzionarie. Anzi, si potrebbe dire che Striano abbia
raccontato l’illusorietà del sogno repubblicano, la fallacia degli ideali
egualitari calati con forza in un contesto, quello partenopeo, retto da regole
ancestrali, del tutto estraneo e quasi immune al sentire elitario degli spiriti
democratici. La Repubblica napoletana è stata un fallimento, al di là del suo
indubbio valore storico, perché non è riuscita a convincere il popolo minuto, i
“lazzari” e la nascente classe media, legati da un vincolo quasi paternalistico
al re. La rivoluzione e i grandi principi altro non sono stati che balocchi
intellettuali, vuote parole che non hanno avuto la capacità di apparire
seducenti o convincenti per un popolo abituato ad arrabattarsi giorno dopo
giorno, ma capace di vivere quasi felicemente persino nella miseria più nera.
Ed ecco dunque il grande paradosso, compreso dagli spiriti più acuti come
Vincenzo Cuoco: il popolo partenopeo non ha alcuna fiducia nei rivoluzionari,
che promettono di liberarlo da una schiavitù in cui non sente di essere
costretto. Perché il popolo è già libero e non necessita di altra libertà; e
questo, si badi bene, non perché sia stupido o ottuso, ma perché portatore di
una sua profonda saggezza, nell’atavica comprensione che le cose non possono
mai cambiare, che i ruoli di povero e ricco non potranno mai essere sovvertiti.
E questo senso di sfiducia acquista una valenza ancora più ampia nelle parole
di Vincenzo Sanges, uno dei protagonisti del libro.
«Ricordati che quand’uno entra a far parte di un’organizzazione, una chiesa, di qualsiasi tipo essa sia, come individuo è finito: da libero si fa necessariamente schiavo.»
Al di là del discorso
ideologico, il romanzo è anche un vivido ritratto della città di Napoli, che
proprio alla fine del Settecento visse uno dei suoi massimi periodi di
splendore artistico e culturale, grazie alla presenza di intellettuali di
punta, che ne fecero una delle due capitali italiane dell’Illuminismo, assieme
a Milano. Oltre ai circoli culturali, ai teatri, ai salotti racchiusi negli
scrigni di magnifici palazzi, Striano racconta anche l’altra Napoli, fatta del
buio dei vicoli, della miseria dei bassi abitati da una miriade di “lazzari”
che campano alla giornata. E di questi due volti della città vengono
straordinariamente descritti rumori, odori e colori, sì che durante la lettura
sembra davvero di essere immersi nell’atmosfera partenopea. Si considerino in
proposito le intense descrizioni delle feste popolari e dei mercati, delle
adunate in piazza e delle esecuzioni; Striano tratteggia visi contratti nel
riso o nel pianto, riporta stralci di frasi udite per strada, fa crepitare le
pagine di rumori intensi, le riempie di umori decisi, vi condensa suoni e
sfumature. E proprio nel ruolo di narratore onnisciente dà prova magistrale di
sapienza letteraria.
Le suggestioni e le riflessioni ispirate dal libro sono così
tante che non è possibile racchiuderle in poche righe. Eppure, è doveroso
segnalare che Il resto di niente è prima di tutto un complesso e profondo
ritratto di donna. Striano entra nell’animo della sua eroina, con straordinaria
sensibilità la mette a nudo di fronte al lettore, senza nascondere nulla:
turbamenti, dubbi, accese passioni, gioie e dolori. Lenòr Pimentel è un personaggio
che, chiuso il libro, sarà impossibile dimenticare.
Ho letto questo libro molti anni fa.
RispondiEliminaTutte le storie che raccontano grandi donne mi hanno sempre intrigata.
Grazie per la visita e per il commento. In effetti, come ho scritto alla fine, "Il resto di niente" è soprattutto un grande ritratto femminile. O meglio, partendo da una complessa figura femminile, Striano ha ricostruito tutto un mondo intellettuale.
Elimina