28 aprile 2017

"Il silenzio delle cicale" di Gian Piero Bona: radiografia di una catastrofe

È sufficiente leggere le prime pagine de Il silenzio delle cicale (1981) per dare ragione a Jean Cocteau, che non esitò a definire Gian Piero Bona un «poète extraordinaire». La sua scrittura immaginifica dà corpo alle spinte dell’anima, concretizzandole in raffigurazioni delicate e colte. Cionondimeno, la prosa è tutt’altro che arresa, ma densa di una forza espressiva che si lascia apprezzare sia nelle singole descrizioni che nell’insieme.
Il romanzo racconta la decadenza economica e morale della nobile e ricca famiglia Baumgrille, di origine austriaca ma trapiantata in Italia. I Baumgrille, che «vedevano nell’Austria la madre perduta e nell’Italia una matrigna», subiscono nell’arco di soli trent’anni il definitivo tracollo. La loro epopea si intreccia con le vicende della storia italiana del Novecento: vissuti gli ultimi palpiti di gloria durante il Fascismo, i Baumgrille, al pari delle cicale di cui portano il nome, scompaiono all’approssimarsi del progresso, che ha le meccaniche sembianze della paventata guerra nucleare e del boom economico.   
Tristano Baumgrille, il protagonista del romanzo, è uno dei personaggi più complessi e singolari della letteratura italiana del Novecento. Costretto a sbarcare il lunario come musicista in un modesto cafè chantant viennese, è l’unico consapevole testimone della catastrofe della famiglia, di cui traccia un’impietosa radiografia. Egli è prima di tutto un poeta, un uomo «che vive verticalmente ciò che gli altri subiscono orizzontalmente». Proprio per sublimare i tormenti del cuore, decide, dopo vent’anni di assenza, di ritornare a Villa Tramonto, sontuosa residenza di famiglia in stile fascista, ridotta ad un ammasso di macerie sacrificate al dio del capitalismo. Tristano è di «natura utopistica e delicatamente anarchica, che l’avrebbe portato a disprezzare la società, tuttavia senza tradirla; nel fondo era un autolesionista, sedotto ma impaurito dalla sovversione, cantore della libertà ma con riserva». A Gian Piero Bona bastano poche righe per tratteggiare la natura più recondita del suo personaggio.
«Tristano sentiva di essere nato per dispetto e per ammonimento. Remissivo per calcolo più che per disposizione, nutriva fin dall’infanzia i germi dell’indipendenza e della critica, non sufficienti per spingerlo sulle piazze dell’eroe, del politico, dell’ideologo, ma bastanti per sradicarlo dall’ordine borghese e dall’ottusità sociale. Perciò scandalizzava i salotti, rifiutava gli inviti coronati, dormiva in alberghi malfamati, polemizzava coi predicatori, sputava per terra e si faceva rastrellare dalla Buon Costume. Era uno scapigliato in ritardo di un secolo e forse l’anticipatore di un ribellismo metafisico troppo prematuro. Avrebbe voluto fuggire di casa, ma Villa Tramonto era la sua tomba, e alla tomba non ci si rivolta. Egli sapeva che il giogo dell’abitudine, se viene scosso, getta in un isolamento diffidente, in una libertà senza pace. Era destinato all’affanno inespresso e la rivoluzione soffocata gli dava la volontà di resistere ai tumulti del cuore. Infine si rassegnava. Capiva che un’agitata indipendenza sarebbe stata peggiore di una tranquilla schiavitù.»
Tornato nella villa di famiglia, pallida ombra della meravigliosa dimora che aveva lasciato vent’anni prima, Tristano ripercorre a ritroso il passato. I suoi ricordi spaziano dall’infanzia al raggiungimento della vita adulta, descrivendo la parabola sempiterna delle stagioni nei giardini e nelle lussuose stanze di Villa Tramonto. Egli vive un rapporto conflittuale con il mondo e con le persone: «per lui le abitudini proprie all’essere umano non avevano alcun interesse, ossia non era mai stimolato dalla banalità del quotidiano. Ci voleva un nembo di tempesta o addirittura un’eclissi di luna per trovare eccezionale la persona che gli stava vicino e allora se ne invaghiva; sparito il fenomeno naturale spariva il sentimento». Il conflitto è insanabile soprattutto con la madre Polissena, che vuole trasfigurare il figlio ad immagine e somiglianza delle sue ambizioni; per questo lo rimprovera quando egli va a giocare a carte nelle osterie con i contadini della zona per ubriacarsi di rozzezza, accusandolo di «compromettere la dignità del suo nome in una taverna di ubriachi». Polissena rappresenta la parte più retriva del sentimento aristocratico: decisa oppositrice di ogni forma di progresso sociale e fieramente conservatrice, è l’unica a non accettare la triste fine di un’epoca. Diametralmente opposto è il marito Max, padre di Tristano. È un uomo colto e intelligente, consapevole dell’ineluttabilità del disastro ma pronto ad accettarlo stoicamente.
Quale uomo dominato dai sentimenti, Tristano vive con sofferenza l’amore, che divide tra tre persone. La prima è la cugina Isabella, promessa sposa per volontà della madre Polissena. Isabella rappresenta «la sfida alla solitudine, agli affetti, la soluzione borghese della perpetuità»; per questo viene abbandonata sull’altare da Tristano, che si ribella alla volontà della madre. I veri poli del suo sentimento, infatti, sono il cugino Italo e l’amica di famiglia Irene, a loro volta avvinti da una torbida e indecifrabile relazione. Irene è divisa tra i due cugini, ognuno dei quali la ama di un amore diverso: carnale quello di Italo, spirituale quello di Tristano. I due ragazzi non potrebbero essere più diversi: Tristano è delicato, sensibile, raffinato e colto; Italo, all’opposto, è l’emblema dell’uomo fascista, virile, sprezzante, rozzo e tracotante. Tristano vive con sofferenza il confronto con il cugino, ma al contempo ne è attratto, perché sente che Italo è in grado di amare Irene come egli non saprebbe mai fare. In parole povere, Tristano ama Irene perché amata da Italo, ama Italo per il desiderio carnale di quest’ultimo verso Irene. Tristano sublima così la propria incapacità di amare nella prepotenza erotica del cugino. Il sogno della sua vita è quello di «possedere una donna legata a un uomo il quale a sua volta fosse legato a lui, l’inattuabile utopia del cuore doppio». Tristano viene travolto da «una delle passioni umane più strazianti: l’amore per una donna perché amata da un uomo amato, o meglio l’amore per un uomo attraverso il quale raggiungere la donna amata». Eppure nel libro non vi è nulla di scandaloso, perché Bona, da poeta qual è, riesce a trattare con impeto e delicatezza un tema potenzialmente in grado di far tremare alle fondamenta l’edificio della morale corrente. D’altronde, l’argomento non è nuovo nella letteratura; si pensi al romanzo Jules e Jim di Roche. Tuttavia, rispetto al libro francese, in cui il triangolo si compone, ne Il silenzio delle cicale il rapporto a tre vive soltanto nelle deluse aspirazioni di Tristano, il solo a desiderarlo.
Il romanzo non può che lasciare un segno indelebile nel lettore, come solo la grande poesia sa fare in chi ha la pazienza di ascoltarla. Dopo aver chiuso il libro, si rimane scossi, interdetti al pari di Tristano, che quantomeno ha avuto il merito di sacrificare tutto al sentimento, conscio che «nella vita non bisogna tentare di capire niente e il ricordo di ciò che credi di aver capito è un suicidio».
Prima edizione Garzanti (1981)

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