È sufficiente leggere le prime pagine de Il silenzio delle cicale (1981) per dare ragione a Jean Cocteau,
che non esitò a definire Gian Piero Bona un «poète
extraordinaire». La sua scrittura immaginifica dà corpo alle spinte
dell’anima, concretizzandole in raffigurazioni delicate e colte. Cionondimeno,
la prosa è tutt’altro che arresa, ma densa di una forza espressiva che si
lascia apprezzare sia nelle singole descrizioni che nell’insieme.
Il romanzo racconta la
decadenza economica e morale della nobile e ricca famiglia Baumgrille, di
origine austriaca ma trapiantata in Italia. I Baumgrille, che «vedevano nell’Austria la madre perduta e
nell’Italia una matrigna», subiscono nell’arco di soli trent’anni il
definitivo tracollo. La loro epopea si intreccia con le vicende della storia
italiana del Novecento: vissuti gli ultimi palpiti di gloria durante il
Fascismo, i Baumgrille, al pari delle cicale di cui portano il nome, scompaiono
all’approssimarsi del progresso, che ha le meccaniche sembianze della paventata
guerra nucleare e del boom economico.
Tristano Baumgrille, il protagonista del romanzo, è uno dei personaggi
più complessi e singolari della letteratura italiana del Novecento. Costretto a
sbarcare il lunario come musicista in un modesto cafè chantant viennese, è l’unico consapevole testimone della
catastrofe della famiglia, di cui traccia un’impietosa radiografia. Egli è prima
di tutto un poeta, un uomo «che vive
verticalmente ciò che gli altri subiscono orizzontalmente». Proprio per
sublimare i tormenti del cuore, decide, dopo vent’anni di assenza, di ritornare
a Villa Tramonto, sontuosa residenza di famiglia in stile fascista, ridotta ad
un ammasso di macerie sacrificate al dio del capitalismo. Tristano è di «natura utopistica e delicatamente anarchica,
che l’avrebbe portato a disprezzare la società, tuttavia senza tradirla; nel
fondo era un autolesionista, sedotto ma impaurito dalla sovversione, cantore
della libertà ma con riserva». A Gian Piero Bona bastano poche righe per
tratteggiare la natura più recondita del suo personaggio.
«Tristano sentiva di essere nato per dispetto e per ammonimento. Remissivo per calcolo più che per disposizione, nutriva fin dall’infanzia i germi dell’indipendenza e della critica, non sufficienti per spingerlo sulle piazze dell’eroe, del politico, dell’ideologo, ma bastanti per sradicarlo dall’ordine borghese e dall’ottusità sociale. Perciò scandalizzava i salotti, rifiutava gli inviti coronati, dormiva in alberghi malfamati, polemizzava coi predicatori, sputava per terra e si faceva rastrellare dalla Buon Costume. Era uno scapigliato in ritardo di un secolo e forse l’anticipatore di un ribellismo metafisico troppo prematuro. Avrebbe voluto fuggire di casa, ma Villa Tramonto era la sua tomba, e alla tomba non ci si rivolta. Egli sapeva che il giogo dell’abitudine, se viene scosso, getta in un isolamento diffidente, in una libertà senza pace. Era destinato all’affanno inespresso e la rivoluzione soffocata gli dava la volontà di resistere ai tumulti del cuore. Infine si rassegnava. Capiva che un’agitata indipendenza sarebbe stata peggiore di una tranquilla schiavitù.»
Tornato nella villa di famiglia, pallida ombra della meravigliosa dimora
che aveva lasciato vent’anni prima, Tristano ripercorre a ritroso il passato. I suoi ricordi
spaziano dall’infanzia al raggiungimento della vita adulta, descrivendo la
parabola sempiterna delle stagioni nei giardini e nelle lussuose stanze di
Villa Tramonto. Egli vive un rapporto conflittuale con il mondo e con le
persone: «per lui le abitudini proprie
all’essere umano non avevano alcun interesse, ossia non era mai stimolato dalla
banalità del quotidiano. Ci voleva un nembo di tempesta o addirittura
un’eclissi di luna per trovare eccezionale la persona che gli stava vicino e
allora se ne invaghiva; sparito il fenomeno naturale spariva il sentimento».
Il conflitto è
insanabile soprattutto con la madre Polissena, che vuole trasfigurare il figlio
ad immagine e somiglianza delle sue ambizioni; per questo lo rimprovera quando
egli va a giocare a carte nelle osterie con i contadini della zona per
ubriacarsi di rozzezza, accusandolo di «compromettere
la dignità del suo nome in una taverna di ubriachi». Polissena rappresenta la
parte più retriva del sentimento aristocratico: decisa oppositrice di ogni
forma di progresso sociale e fieramente conservatrice, è l’unica a non
accettare la triste fine di un’epoca. Diametralmente opposto è il marito Max,
padre di Tristano. È un uomo colto e intelligente, consapevole
dell’ineluttabilità del disastro ma pronto ad accettarlo stoicamente.
Quale uomo dominato dai sentimenti, Tristano vive con sofferenza
l’amore, che divide tra tre persone. La prima è la cugina Isabella, promessa
sposa per volontà della madre Polissena. Isabella rappresenta «la sfida alla solitudine, agli affetti, la soluzione borghese della
perpetuità»; per questo viene abbandonata sull’altare da
Tristano, che si ribella alla volontà della madre. I veri poli del suo
sentimento, infatti, sono il cugino Italo e l’amica di famiglia Irene, a loro
volta avvinti da una torbida e indecifrabile relazione. Irene è divisa tra i
due cugini, ognuno dei quali la ama di un amore diverso: carnale quello di
Italo, spirituale quello di Tristano. I due ragazzi non potrebbero essere più
diversi: Tristano è delicato, sensibile, raffinato e colto; Italo, all’opposto,
è l’emblema dell’uomo fascista, virile, sprezzante, rozzo e tracotante. Tristano
vive con sofferenza il confronto con il cugino, ma al contempo ne è attratto,
perché sente che Italo è in grado di amare Irene come egli non saprebbe mai
fare. In parole povere, Tristano ama Irene perché amata da Italo, ama Italo per
il desiderio carnale di quest’ultimo verso Irene. Tristano sublima così la
propria incapacità di amare nella prepotenza erotica del cugino. Il sogno della
sua vita è quello di «possedere una donna
legata a un uomo il quale a sua volta fosse legato a lui, l’inattuabile utopia
del cuore doppio». Tristano viene travolto da «una delle passioni umane più strazianti: l’amore per una donna perché
amata da un uomo amato, o meglio l’amore per un uomo attraverso il quale
raggiungere la donna amata». Eppure nel libro non vi è nulla di scandaloso,
perché Bona, da poeta qual è, riesce a trattare con impeto e delicatezza un
tema potenzialmente in grado di far tremare alle fondamenta l’edificio della
morale corrente. D’altronde, l’argomento non è nuovo nella letteratura; si
pensi al romanzo Jules e Jim di
Roche. Tuttavia, rispetto al libro francese, in cui il triangolo si compone,
ne Il silenzio delle cicale il
rapporto a tre vive soltanto nelle deluse aspirazioni di Tristano, il solo a
desiderarlo.
Il romanzo non può che lasciare un segno indelebile nel lettore, come
solo la grande poesia sa fare in chi ha la pazienza di ascoltarla. Dopo aver
chiuso il libro, si rimane scossi, interdetti al pari di Tristano, che
quantomeno ha avuto il merito di sacrificare tutto al sentimento, conscio che «nella vita non bisogna tentare di capire
niente e il ricordo di ciò che credi di aver capito è un suicidio».
Prima edizione Garzanti (1981)
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