8 settembre 2017

"America perduta" di Bill Bryson: sulla strada dei ricordi

Partire su una Chevrolet scassata per un lungo tour degli Stati Uniti, oltrepassando deserti, montagne e oziose cittadine, è un sogno che, più o meno consapevolmente, coltiviamo tutti. Sarà il retaggio di qualche libro (Kerouac su tutti), oppure il desiderio suscitato da qualche pellicola, fatto sta che intraprendere un viaggio on the road è un’idea che da sempre ispira curiosità e desiderio di evasione. Tra i tanti che hanno vissuto quest’esperienza, Bill Bryson è tra coloro i quali hanno deciso di raccontarla in un libro. Bryson è un giornalista americano, nato nel 1951 nello Iowa, nel cuore degli Stati Uniti, proprio al centro della più grande pianura del Paese. Dopo aver vissuto per vent’anni in Inghilterra ed aver viaggiato per tutta Europa, è tornato negli Usa, dove collabora con importanti quotidiani, quali il Washington Post e il New York Times.
Poco prima dei quarant’anni, Bryson ha deciso di intraprendere un viaggio in auto, attraversando praticamente tutti gli Stati Uniti, da Est ad Ovest, partendo dalla città natale di Des Moines. Non si è trattato del solito itinerario “da costa a costa”, ma di un tragitto a forma di otto, molto più lungo e faticoso, che ha lambito quasi tutti gli Stati. America perduta è il resoconto dell’appassionante esperienza, che ha rappresentato, prima di tutto, un percorso sull’onda dei ricordi. Il Paese perduto di cui parla Bryson è quello della sua infanzia, dei viaggi assieme ai genitori durante gli interminabili periodi di vacanza. Il cammino diventa così l’occasione per rievocare ricordi ancora vividi, oppure per constatare quanto i luoghi della fanciullezza siano cambiati negli anni.
L’autore descrive prevalentemente un’America minore, rurale, lontana dalle luci e dai fasti delle grandi metropoli. Leggendo il libro si ha modo di conoscere luoghi sperduti e dai nomi esotici, come Oskaloosa, Bolivar, Cairo, Monroe, Dearborne, Cedar City, solo per citarne alcuni. Eppure, i luoghi descritti da Bryson sono il cuore pulsante del Paese, l’America più vera e tradizionalista, legata a valori e riti immutabili. Al tempo stesso, sono i posti che meglio corrispondono all’immaginario collettivo costruito dalle pellicole cinematografiche, fatto di motel, stazioni di servizio nel deserto e infinite lingue di asfalto che si srotolano per chilometri nel nulla. Gli stessi scenari dei quadri di Hopper, per intenderci con una suggestiva similitudine.
Il libro, tuttavia, presenta almeno due punti deboli. Il primo è la monotonia del racconto, che fa gradualmente scemare l’attenzione del lettore. Le prime cento pagine sono entusiasmanti, pur nella semplicità del meccanismo narrativo: Bryson si limita a raccontare le sue giornate, fatte di lunghi tragitti in auto, visite alle cittadine disseminate lungo il percorso e soste notturne negli alberghi. Se inizialmente il racconto scorre via in scioltezza, alla lunga le situazioni finiscono per ripetersi, rendendo faticosa la prosecuzione. L’autore descrive accuratamente i luoghi visitati, ne racconta la storia e i tratti peculiari degli abitanti, come se si trattasse di un reportage. La reiterazione di tale meccanismo narrativo rende arduo concludere alcuni capitoli, che appaiono quasi una replica di altri. Il secondo punto debole è, a mio avviso, nello stile. Bryson è assai efficace quando adotta il piglio del reporter, ma fa spesso uso di un tono ironico forzato e poco incisivo, che scade talvolta in banali freddure.
Nel complesso si tratta comunque di un libro piacevole, da leggere in piccole dosi, magari un solo capitolo al giorno, per avere quasi l’impressione di viaggiare assieme all’autore sulle sterminate autostrade americane, all’inseguimento di un sogno, o forse di un ricordo d’infanzia.

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