Partire su una Chevrolet scassata per un lungo tour degli Stati Uniti, oltrepassando
deserti, montagne e oziose cittadine, è un sogno che, più o meno
consapevolmente, coltiviamo tutti. Sarà il retaggio di qualche libro (Kerouac
su tutti), oppure il desiderio suscitato da qualche pellicola, fatto sta che intraprendere
un viaggio on the road è un’idea che
da sempre ispira curiosità e desiderio di evasione. Tra i tanti che hanno
vissuto quest’esperienza, Bill Bryson è tra coloro i quali hanno deciso di
raccontarla in un libro. Bryson è un giornalista americano, nato nel 1951 nello
Iowa, nel cuore degli Stati Uniti, proprio al centro della più grande pianura
del Paese. Dopo aver vissuto per vent’anni in Inghilterra ed aver viaggiato per
tutta Europa, è tornato negli Usa, dove collabora con importanti quotidiani, quali
il Washington Post e il New York Times.
Poco prima dei
quarant’anni, Bryson ha deciso di intraprendere un viaggio in auto,
attraversando praticamente tutti gli Stati Uniti, da Est ad Ovest, partendo
dalla città natale di Des Moines. Non si è trattato del solito itinerario “da
costa a costa”, ma di un tragitto a forma di otto, molto più lungo e faticoso,
che ha lambito quasi tutti gli Stati. America
perduta è il resoconto dell’appassionante esperienza, che ha rappresentato,
prima di tutto, un percorso sull’onda dei ricordi. Il Paese perduto di cui
parla Bryson è quello della sua infanzia, dei viaggi assieme ai genitori
durante gli interminabili periodi di vacanza. Il cammino diventa così
l’occasione per rievocare ricordi ancora vividi, oppure per constatare quanto i
luoghi della fanciullezza siano cambiati negli anni.
L’autore descrive prevalentemente
un’America minore, rurale, lontana dalle luci e dai fasti delle grandi
metropoli. Leggendo il libro si ha modo di conoscere luoghi sperduti e dai nomi
esotici, come Oskaloosa, Bolivar, Cairo, Monroe, Dearborne, Cedar City, solo
per citarne alcuni. Eppure, i luoghi descritti da Bryson sono il cuore pulsante
del Paese, l’America più vera e tradizionalista, legata a valori e riti
immutabili. Al tempo stesso, sono i posti che meglio corrispondono all’immaginario
collettivo costruito dalle pellicole cinematografiche, fatto di motel, stazioni
di servizio nel deserto e infinite lingue di asfalto che si srotolano per
chilometri nel nulla. Gli stessi scenari dei quadri di Hopper, per
intenderci con una suggestiva similitudine.
Il libro, tuttavia,
presenta almeno due punti deboli. Il primo è la monotonia del racconto, che fa
gradualmente scemare l’attenzione del lettore. Le prime cento pagine sono
entusiasmanti, pur nella semplicità del meccanismo narrativo: Bryson si limita a raccontare le sue giornate, fatte di lunghi tragitti in auto, visite
alle cittadine disseminate lungo il percorso e soste notturne negli alberghi.
Se inizialmente il racconto scorre via in scioltezza, alla lunga le situazioni finiscono
per ripetersi, rendendo faticosa la prosecuzione. L’autore descrive
accuratamente i luoghi visitati, ne racconta la storia e i tratti peculiari
degli abitanti, come se si trattasse di un reportage. La reiterazione di tale
meccanismo narrativo rende arduo concludere alcuni capitoli, che appaiono quasi
una replica di altri. Il secondo punto debole è, a mio avviso, nello stile.
Bryson è assai efficace quando adotta il piglio del reporter, ma fa spesso uso
di un tono ironico forzato e poco incisivo, che scade talvolta in banali freddure.
Nel complesso si
tratta comunque di un libro piacevole, da leggere in piccole dosi, magari un
solo capitolo al giorno, per avere quasi l’impressione di viaggiare assieme
all’autore sulle sterminate autostrade americane, all’inseguimento di un sogno,
o forse di un ricordo d’infanzia.
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