Giancarlo Onorato, anzi
gianCarlo, non necessita di presentazioni. Cantante, chitarrista e leader degli
Underground Life, una delle band seminali della new wave italica, ha poi avviato una proficua carriera solista. Da
sempre attento al suono della parola, ha all’attivo cinque album in studio, usciti
spesso a diversi anni di distanza l’uno dall’altro, segno di una profonda
meditazione e di un lavoro minuzioso. Quantum
(2017) è il suo ultimo disco, salutato da unanimi consensi della critica.
Onorato non è solo un autore colto, ma anche un apprezzato scrittore e
pittore. Lascio spazio alle sue parole, tante, profonde e di ampio respiro, ringraziandolo
di cuore per la cortesia e la disponibilità.
Domanda. Iniziamo dal passato. Gli Underground Life sono stati uno dei gruppi di
culto della scena new wave italiana
degli anni Ottanta. Che ricordi hai di quel dirompente periodo di rinnovamento
del rock italiano?
Risposta. Ne ho molti, ma ho anche molta nebbia, dovuta alla mia predilezione per
il presente e all’urgenza espressiva che contraddistingue ogni mio passo. A
volte mi pare di non sapere più nulla di ciò che è stato, perché la mia
attualità è altrettanto dura ed eccitante, combattiva e ricca di scoperte,
quindi non c’è il tempo per un vero ricordo strutturato e non ne sento il
bisogno. Altre volte all’improvviso sorgono invece i ricordi di eventi ai quali
ero ed eravamo presenti o che abbiamo creato. In questo terreno, è molto facile
imbattersi in concorrenze circa chi abbia fatto per primo una certa cosa, ma la
storia è lì e quando è ben scritta è lì per essere letta. A chi fosse sfuggito,
vorrei ricordare che di quel periodo, anche se in una chiave
narrativo-saggistica, ho parlato diffusamente in Ex – semi di musica vivifica. Certo è risaputo sia stato un periodo
cruciale, ma mi pare manchi ancora un’analisi oggettiva e ben condotta perché
si capisca ciò che di basilare è avvenuto nel decennio 1977-1988. Innegabile è
stato il valore storico di quella formazione che da adolescente ho guidato. Poi
chi ne ha giovato più di tutti sono proprio io, perché è stata la mia scuola di
vita, oltre ad insegnarmi il mestiere.
D. La scena dell’epoca era ricca di fermento e di gruppi validissimi: penso a Neon, Diaframma, Moda, Litfiba, Gaznevada, Garbo, Denovo, Frigidaire Tango, oltre che ovviamente agli Underground Life. Mi sono sempre chiesto, però, perché i nostrani gruppi new wave abbiano sempre mantenuto una popolarità sotterranea, di culto, senza mai arrivare al grande pubblico, a parte i Litfiba. Eppure all’epoca ci furono passaggi televisivi anche importanti, e gli stessi UL si esibirono alla Rai. Come ti spieghi questa anomalia?
R.
A domande come questa si dovrebbe rispondere con analisi sociologiche, o di
storia dei consumi culturali. Come protagonista è più scomodo rispondere,
tuttavia potrebbe bastare ricordare tre elementi fondamentali. Primo: era un Paese molto diverso da quello
attuale, più provinciale e meno facilmente raggiungibile con i contenuti in
musica. Secondo: noi proponevamo qualcosa di effettivamente nuovo, non di
simile a qualcos’altro già precedentemente sentito da queste parti. Ad un certo
punto si parlò di rock italiano, ma a lungo l'obiezione mossa a gente come noi,
parlo di UL, era proprio sulla definizione di rock, che si intendeva in chiave
assai più tradizionale, mentre noi contravvenivamo a molti precetti ritenuti
intoccabili nel rock. Terzo: non vi era possibilità di farsi finanziare
seriamente un’attività (oggi è diverso per troppe cose, ma resta uguale la
difficoltà di ottenere finanziamenti per proporre seriamente la qualità),
perché le grosse strutture discografiche ignoravano ogni realtà innovativa,
almeno finché non ci vedessero la possibilità di trasformarla in merce. Andare
in televisione ma non avere una distribuzione capillare dei dischi e dei
concerti era una contraddizione che difficilmente poteva produrre popolarità.
Infatti, lo hai detto tu, chi ha avuto ragione massicciamente del pubblico lo
ha fatto sì sulla base di una proposta più appetibile e sulla scorta di un
prima grande raccolta presso i club, come i Litfiba, ma anche grazie a dosi di
promozione che altri, come noi, non ebbero mai. Senza carburante, puoi avere il
motore più potente, ma resti fermo. Le cose sono comunque molto più complesse
di così, e tra l'altro tu hai citato nomi molto differenti già gli uni con gli
altri quanto a promozione, visibilità, storia. Mentre il mio gruppo era ed è
rimasto indipendente in toto per diverse ragioni, quindi fare confronti è
arduo, così come è vero che le nostre
conquiste valgono milioni di volte quelle ottenute da altri con mezzi a noi
negati.
D. Veniamo al presente. Quantum, il tuo ultimo lavoro, è un disco vero ed intenso, non di facile assimilazione ma proprio per questo così affascinante. Ancora una volta è la parola al centro di tutto; si pensi a Scintillatori, con quel meraviglioso intro recitato che poi evolve nel canto, oppure a Il barocco del tuo ventre. Come procede il tuo lavoro di scrittura dei brani? Come fai a trovare il giusto equilibrio tra parole e musica?
R.
Frequento le mie idee e mi lascio
attraversare dalle mie composizioni. Chi ascolta Quantum, oltre a sentire un disco, riceve un pezzo della mia esistenza,
vi risuonano le cose che mi hanno fatto vibrare e che mi hanno cambiato,
addolorato, eccitato davvero, che mi hanno allargato il pensiero o che mi hanno
fermato da qualche parte. È un’opera, e un’opera deve fare questo, deve essere
attraversata dalla vita di chi l’ha concepita per poter passare per trasfusione
a chi ne fruisce, oppure non è che un pretesto per presenziare. Cosa che accade
nella maggioranza dei casi. Mi pare di poter dire che album come Quantum nascano invece come una
distillazione, infischiandosene del mercato e delle regole che esso impone. Ma
fate attenzione che questo lo dicono quasi tutti: sono tutti superiori alle
lusinghe del consenso e dell'affermazione presso il pubblico, quando nei fatti
troppi ne sono servi. Io ho il privilegio
di appartenere alla limitata schiera di chi ha deciso da sempre di fare solo
ciò che si sente, e perché lo sente come la cosa giusta. Agli altri faccio
i miei auguri. Ogni disco tuttavia è una storia diversa, e nata da momenti
tanto diversi, anche se credo che la scrittura sia in definitiva una faccenda
di onestà.
D. Ne Il passaggio, tratto sempre da Quantum, canti “deve esserci un passaggio là per noi, di esistenza liberata, là per noi”. Che cos’è per te la libertà, nella vita come nel lavoro?
R.
È il respiro creativo, che si raccolga ed espanda sulla cima di un colle o nel
proprio letto. Accedervi però è possibile solo attraverso un lavoro completo e
continuo. È sentire di avere un nuovo
domani, una luce accesa giusto per te e per nessun altro al mondo, e mentre
sai che quella luce è lì per te, sai anche profondamente che appartiene a
chiunque si sappia cercare.
D. Ascoltando alcune tue canzoni, come Acqua di Valium, Le bisce d’acqua, oppure la meravigliosa Ballata dell’estate sfinita, si nota una “semplicità ricercata”, se posso permettermi il gioco di parole. Costruisci sempre un tappeto sonoro non invasivo, apparentemente minimale ma assai complesso, su cui si innesta la tua voce imperiosa ma mai oltre le righe. È uno stile personale, senza dubbio. Come lo definiresti?
R.
Definirlo per me è difficile. Lasci le tue impronte sulla sabbia e lo fai in
quel preciso modo solo tu, ma se ti giri a domandarti come fai, perdi di vista
la naturalezza del passo.
D. C’è un tuo video, su YouTube, in cui spieghi il processo di “costruzione di un ideale proprio di amore”, che è poi l’idea alla base di Androide Mirna. Puoi parlare della genesi di questa meravigliosa canzone, tratta dall’album Falene?
R.
Falene è un disco ricco di energie
differenti, nato in un momento assai delicato della mia vita, quando mi trovavo
in bilico tra una certa dimensione e qualcosa di nuovo che spingeva dentro. Mi
è stato chiesto più volte come sia nato un brano come Androide Mirna,
non esistono risposte tecniche, né analisi che possano raccontarlo, se non il
fatto che riflette la mia dimensione
estetica, e vi si fonde la narrativa che ho in mente da sempre, grondante
sensualità ma pregna di significato. Credo fossero elementi eloquenti già
al momento in cui l'abbiamo realizzata in studio. Se dovessi fare del cinema,
il mio sarebbe scritto così. È un brano deliberato e asimmetrico, umido e
immaginifico, quindi particolarmente mio.
D. Oltre che musicista, sei anche uno scrittore. Che tipo di letteratura preferisci? Quali sono gli scrittori che ami di più?
R.
Prediligo la narrativa più viscerale e sporta verso i sensi, ma ugualmente
attenta a scavare il senso della vita. Non sono un lettore ordinato, né
sistematico, e leggo più cose contemporaneamente, assecondando la mia
inquietudine. Occorre fare attenzione al ruolo dello scrittore, che rischia di
essere in drastica via di scomparsa. Oggi
abbiamo un oceano di scriventi ma pochissimi scrittori. E questo è più vero
da noi, prova ne è il fatto che sono davvero una minoranza gli italiani che
leggono, mentre per paradosso si pubblicano migliaia di titoli. La narrativa è
essenzialmente filosofia, spirito, cronaca e interpretazione dei tempi su un
piano più lento e riflessivo di quanto non possa fare solitamente la canzone.
Per scrivere qualcosa di utile e sensato occorre quindi tempo, molta
stratificazione, confronto, decantazione. Ecco che diventa difficile un
panorama di valore, perché in generale
attualmente si è scaricato di senso via via il retroterra di vita che porti a
uno scenario di narrativa autentica, diversamente da come è accaduto in altri
momenti storici. Comunque farò un solo nome, Antonio Moresco. A differenza
di questo autore, molto spesso la quasi
totalità di coloro che approccio in narrativa (e poi abbandono), sanno
di televisivo, cinematografico e di ordinario già alle prime pagine. Perché è
evidente che intendano parlare a coloro che sono ormai del tutto imbrigliati
nell'ordinario, e incapaci di accedere a dimensioni meno meschine. Chi scrive apprende a esprimere l'ordinario
e il banale, il riconoscibile, e lo riproduce alla inconscia ricerca del
consenso. Come quelli che parlano in una trasmissione televisiva e non
perdono l'occasione per dire cose banali e gravide di comune senso del pudore o
della bontà da supermercato, solo per scatenare l’applauso. Ci sono parole
chiave, no? Basta dire: “famiglia”, oppure, “lavoratori”, oppure, “fine del
mese”. E tutti ti applaudono soddisfatti. Mi sembra inoltre altrettanto chiaro
che chi scrive pensi troppo al cinema, e se non spera unicamente di finire lì,
quantomeno scrive pensando a ciò che ha visto sullo schermo, cosa che
impoverisce la scrittura. Moresco ha comunque espresso assai meglio e prima di
me questa osservazione, un guaio del quale facciamo tutti le spese, uno per
uno. E basterebbe leggere davvero per coglierlo.
D. “E nel liquore del tuo ventre glorificare la bellezza / con questa semina di stelle / ti scintillo il volto”. Sono i suggestivi versi di Niente di te, tratto da Quantum. Può la poesia avere ancora un senso in questo mondo così prosaico e volgare che ci circonda?
R.
Non so se la mia sia poesia, ma so con certezza che è ricerca, e quindi attiene
al mondo del desiderio come slancio vitale. Dunque è utile, feconda. Abbiamo
una moltitudine di persone che soffre di mancanza di comunicazione ma non si
accorge di avere smesso da tempo di parlare a se stessa e che per farlo
occorrono confronti interiori. Quelli vengono a diversi livelli, ma il più intimo degli stimoli esterni è la
poesia, che può essere espressa in modo verbale da qualcuno o, più
personalmente, fruita per proprio conto. E pensare che tanti vivono senza
incontrarla mai. Molte persone soffrono di depressione non riuscendo a
ritrovarsi, e non riuscendovi non trovano le risorse necessarie per risorgere
dal proprio dolore, che in sé è sempre una dimensione vivifica, perché ti mette
di fronte a ciò che non va e da cui devi saperti emancipare. Perché la vita è
così. Al di là di ogni trionfo e di ogni apparente riuscita, la vita ci offende
spesso. La poesia, in certi casi, ci
nutre, e chi non lo sa, soffre e non guarisce e tanta ignoranza ci fa male al
punto da impedirci di trovare persino l'antidoto all'ignoranza. La poesia
appartiene al campo della scoperta, e tutti ne hanno bisogno, purché si
dia al termine poesia il senso
del luogo più lontano nel fondo di noi. Anche i più bruti hanno momenti di
profondo bisogno, anche i più feroci criminali hanno una parete, vera o
interiore, alla quale hanno appeso la foto della madre o l'immaginetta della
Madonna o quella di Padre Pio, che sono idoli interiori equivalenti al legame.
Dunque io credo che proprio considerando
il deserto che avanza, occorra umidificare con dimensioni che peschino dentro.
Ne abbiamo bisogno proprio perché non ci accorgiamo neppure più di averne
bisogno.
D. Cosa ne pensi della rinascita dell’analogico e del ritorno del vinile? Si tratta di una semplice moda, oppure è un vero bisogno, la necessità di opporsi alla “musica liquida” che ormai la fa da padrone?
R.
Credo siano entrambe le cose: una specie di reazione all’impalpabilità di buona
parte della musica, che a quanto ne sappiamo sarà sempre più forte e diffusa.
Poi c’è anche una componente nostalgica. Tuttavia io penso che non avremo modo
di rimpiangere nulla, se la musica potrà tornare a essere ciò che nell’essenza
è: una disciplina partecipata, suonata dal vivo, in mezzo alla gente e per la
gente. Come sempre è stata e come deve essere per poter liberare le sue potenti
capacità energetiche.
D. Parliamo del futuro, a proposito di musica su supporti concreti. Su internet molti di noi appassionati chiediamo a gran voce una ristampa, su cd o lp, dei dischi degli Underground Life. Saremo accontentati?
R.
È possibile, anzi auspicabile, occorreva che passasse l'onda del revival. Ciò che è stato fatto da quel
gruppo di ragazzini con me in testa è stato prima di tutto un fatto storico e
per questo va inquadrato e riproposto in modo filologico e adeguato. Ora mi
pare che i tempi siano finalmente maturi per riproporre quell'esperienza
appunto come fatto storico.
D. Quali sono i tuoi progetti futuri?
R.
Molti, come sempre. Concerti e uscite in pubblico quanto più sia possibile
fare. Un disco nuovo dopo l'estate, il romanzo nuovo al quale sto lavorando che
potrà uscire solo quando sarà maturo, una raccolta di racconti e un nuovo
saggio sul ruolo della canzone sensibile contrapposta a quella consolatoria.
Poi collaborazioni vive e autentiche, e tutta la libera docenza che mi venga
permesso di condurre.
D. Se dovessi usare un solo aggettivo per definirti come artista, quale useresti?
R.
Guardandomi attorno temo di essere
necessario. Avrei tanto voluto essere salvato da altri, da padri, da madri, ma
mi tocca sempre la parte di chi corre in aiuto, e quindi io sono condannato a
fare il lavoro necessario, perché sono sempre troppo pochi coloro che lo
svolgono sino in fondo. Quelli come me garantiscono una tenuta al posto di chi
non sa assumersi responsabilità. Lo dico senza la minima modestia, ma anche con
la massima serenità: avendo scelto me
stesso, non posso che dire le cose come le vedo.
gianCarlo Onorato (fotografia di Francesca Collio)
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