3 aprile 2018

"Giovannino" di Ercole Patti: la malìa di un dolcissimo veleno

La letteratura mondiale abbonda di romanzi che hanno come titolo il nome del protagonista: mi vengono in mente Agostino di Moravia, Jacob von Gunten di Walser e Demetrio Pianelli di De Marchi. Non so dire quanto sia felice una tale scelta, eppure spesso il nome possiede già in nuce le caratteristiche del personaggio, servendo da guida al lettore. E se il romanzo racconta le vicende di un giovane rampollo dell’alta borghesia catanese di inizio Novecento, che trascorre le giornate nell’ozio e nell’agio scansando con fermezza il lavoro, esiste forse un nome più adatto di Giovannino? Patti lo sapeva bene e tanto più azzeccata appare la scelta del titolo di questo piacevole e fortunato romanzo di formazione del 1954.
Giovannino è l’unico figlio del ricco notaio Calì, che desidera per il discendente una sistemazione adeguata con una sua pari. Seguiamo la sua parabola di vita dall’adolescenza fino alla «senescenza precoce», come correttamente riportato nella quarta di copertina dell’edizione Bompiani. Giovannino ci appare come l’emblema dello scansafatiche: trascorre intere giornate nelle campagne o nei caffè coi suoi amici sfaccendati, alla ricerca di avventure galanti e non disdegnando l’uso di droghe. A mio avviso, sarebbe tuttavia riduttivo bollarlo quale l’ennesima figura di inetto della letteratura italiana. Egli è più che altro un opportunista, per educazione familiare prima ancora che per indole. Il matrimonio di interesse finisce così per essere il degno e ovvio epilogo di un’esistenza votata all’amore “per la roba” di verghiana memoria. La critica di Patti assume pertanto una portata più ampia: vengono lanciati strali contro una borghesia e una nobiltà inconcludenti, i cui rampolli, da scapigliati senza ribellione, finiscono per sacrificare una possibile esistenza da esteti all’affanno per accumulare denaro. Questo è in fondo anche il triste percorso di Giovannino, la cui precoce vecchiaia coincide di fatto con il raggiungimento di un benessere abulico e fine a se stesso. Non a caso, le pagine più ariose del romanzo sono quelle che raccontano la breve esperienza romana del protagonista: lontano da Catania e dall’assillo parentale, egli vive sei mesi di deliquio, nonostante un misero stipendio da impiegato ministeriale e la quotidianità grama di una camera ammobiliata in affitto.
Mai come in questo caso, poi, si può affermare che la città non costituisca il semplice fondale entro cui si muovono i personaggi, ma sia essa stessa un personaggio. Anzi, sarebbe più corretto parlare al plurale, perché la vicenda si snoda tra Catania e Roma. La città siciliana, in particolare, è descritta magistralmente in tutte le sue sfumature di colori, profumi e suoni. Catania è l’emblema di una vita molle e agiata, per chi se lo può permettere, che addormenta lo spirito e le membra con il suo «veleno dolcissimo», fatto di lunghe passeggiate per l’affollata Via Etnea, di circoli e pasticcerie (anzi, dolcerie) che sono il luogo di ritrovo preferito di una folla numerosissima di nobili, possidenti, ricche dame, avvocati e assicuratori che vivono solo per ostentare ciò che hanno o vorrebbero possedere. E anche Giovannino, come i suoi scapestrati amici, non riesce a sfuggire al destino di «una vita che scorre così liscia, così piana, così dolce che si può invecchiare senza accorgersene e ritrovarsi ad averla vissuta tutta senza averne avuto coscienza, rimanendo sempre figli di famiglia».
La scrittura di Patti è ricercata senza essere sofistica, tanto che Montale l’ha descritta con un ossimoro, la “facilità difficile”. Lo scrittore siciliano alterna diversi registri, passando agilmente dal lirico all’umoristico; lo stile diventa uno dei punti di forza del romanzo, che scorre via docilmente pagina dopo pagina, inoculando nel lettore quel dolce veleno che era poi l’intima essenza della vita di Giovannino.

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