Sometime soon ha segnato
una netta cesura rispetto alla precedente produzione degli inglesi Wild Flowers. A tal
proposito, basti ascoltare su YouTube due o tre canzoni degli album precedenti,
The joy of it all (1984) e Dust (1987). Brani come Melt like ice o lo stesso Dust hanno un deciso sapore new
wave, destinato a scomparire nel successivo disco. All’alba del 1988 i Wild
Flowers avevano dunque all’attivo due LP di scarso riscontro commerciale, e avevano già subito un importante cambio di formazione. Il chitarrista Dave
Newton aveva infatti lasciato la band dopo il primo album, sostituito da Dave
Atherton.
Sebbene non avesse raccolto i
riconoscimenti sperati, il gruppo era riuscito a strappare un
contratto con la gloriosa Slash Records, etichetta americana indipendente nota
per la pubblicazione di dischi punk. Così nel 1988 il quartetto originario di
Wolverhampton era partito alla volta degli Stati Uniti per registrare il terzo
album. Abolite le tastiere usate nei precedenti lavori, la formazione era
composta da Neal Ian Cook (voce e chitarra), Dave Atherton (chitarra), Mark
Alexander (basso) e Dave Coley-Fisher (batteria).
Già il primo ascolto rende
giustizia a quelli della Slash, che non si può dire non avessero fiuto. Sometime soon è un disco scritto e
suonato bene, che non conosce cali di ispirazione, salvo forse un paio di
tracce della seconda facciata. Un aspetto però emerge subito, soprattutto se si
fa il confronto con la precedente produzione: siamo di fronte ad un deciso
cambiamento di stile, una vera e propria inversione a U. Il terzo LP dei Wild
Flowers è frutto di una “risciacquatura
dei panni in Arno”, per dirla alla Manzoni, dove l’Arno è l’America, o
meglio il rock americano. Spariti gli accenti post-punk e new wave, la
band mette la propria tecnica al servizio
di un solido rock chitarristico, che richiama alla mente la musica
statunitense di quegli anni, più che la coeva produzione inglese. Americana fin
nel midollo è già la suggestiva copertina, che ritrae due uomini che scarpinano
su una strada polverosa che si perde all’orizzonte, mentre un ironico
cartellone pubblicitario li invita a “prendere il treno la prossima volta”.
Già i primi solchi, quelli
della robusta Take me for a ride,
tracciano il percorso di un rock solido, senza incertezze, anche se
volutamente radiofonico. Le buone impressioni vengono confermate dalla decisa Broken chains, forse la migliore del
lotto, e da Apple Creek, che conclude
un inizio di tutto rispetto. I toni si ammorbidiscono con la successiva The welcome son, mentre That ain’t true funziona davvero bene
grazie ad un ritornello che rimane in testa. Il gruppo si dimostra affiatato, ma
la marcia in più è sicuramente nella voce intensamente evocativa, a tratti
persino drammatica, di Neal Ian Cook. Egualmente sulla breccia Head of nothing, che apre la seconda
facciata, solida rock song pensata per
funzionare bene dal vivo. Come è naturale che sia, la qualità cala nell’ultima
parte del disco: Set me alight e Don’t know where I’m going sanno di già
sentito, mentre Last train to nowhere chiude
il disco col suo incedere malinconico.
Chiaramente si tratta di un
disco minore, che non aggiunge né toglie alcunché alla storia della musica.
Tuttavia, dato che all’epoca venne distribuito in Italia dalla Ricordi,
non dovrebbe essere impossibile trovarlo a prezzi modici in qualche negozio di
dischi usati. Io ho pagato il vinile 5 euro, ma su internet è in vendita anche in
versione cd a prezzi ancora più bassi. Può valere la pena e di sicuro non ve ne
pentirete.
La copertina del disco e la band nella busta interna del vinile
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