14 luglio 2018

"Il giudice e il suo boia" di Friedrich Dürrenmatt: quando il diritto diventa delitto

Un professore universitario, di cui non ricordo il nome, sosteneva che nella biblioteca di un giurista non può mancare Il giudice e il suo boia dello scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt (1921-1990). Per tanti anni l’affermazione ha galleggiato nei meandri della memoria, senza tradursi in atti concreti, fin quando non mi è capitato tra le mani il libro. L’ho letto senza indugi e l’ho trovato sorprendente.
È stato scritto di tutto su questo romanzo del 1950, fior di critici ne hanno esaltato il perfetto meccanismo narrativo, l’inquietante cupezza delle ambientazioni e finanche la scrittura attraversata da una sottile e spietata ironia. Non è stato però sottolineato a sufficienza l’aspetto di cui parlava il professore, ovvero che Il giudice e il suo boia non è semplicemente un poliziesco, ma un romanzo che scruta uno tra i più dibattuti nodi del diritto penale: il rapporto tra colpevolezza e funzione della pena. Proprio di questo aspetto ho intenzione di parlare.
Non vorrei svelare troppo della trama, ma non è possibile sviscerare i contenuti più profondi del romanzo se non si riassume la vicenda. Durante una serata ad alta gradazione alcolica, il funzionario della polizia elvetica Bärlach e l’immorale Gastmann discutono sulla possibilità di commettere il delitto perfetto. Ad avviso del primo, non esistono delitti che non possano essere scoperti, perché è la stessa imperfezione ed imprevedibilità dell’essere umano a negare tale possibilità. Il malvagio Gastmann è invece convinto del contrario e convince l’altro a stipulare un diabolico patto. Gastmann scommette che sarà in grado di compiere reati efferati senza che Bärlach possa raccogliere le prove per incastrarlo. Per oltre quarant’anni i due si inseguono: il povero poliziotto cerca senza esito di inchiodare Gastmann, autore di delitti all’apparenza non riconducibili a lui. Il poliziotto svizzero conosce la verità, ma non riesce a raccogliere prove sufficienti per fare arrestare l’altro, che beneficia di amicizie influenti e si nasconde dietro la stimabile apparenza dell’uomo d’affari. Quando tutto sembra ormai perduto, Bärlach raggiunge l’obiettivo a cui ha sacrificato l’intera esistenza. Con una macchinazione crudele e perfetta, incastra Gastmann e lo fa finanche uccidere. Il punto, su cui si innestano i temi più profondi del libro, è che Gastmann viene condannato e punito per un reato che in realtà non ha mai commesso. Bärlach lo inchioda pur sapendolo innocente in relazione a quel singolo fatto.
Si leggano in proposito le parole che il poliziotto rivolge al suo nemico nelle ultime pagine del romanzo: «non ho saputo incastrarti per i delitti che hai commesso, ora ti incastro con quello che non hai commesso». Sorge così la domanda, che dà inizio alla riflessione propriamente giuridica. Si può punire taluno per un delitto mai commesso? Chiunque di noi risponderebbe di no, perché non si può condannare un innocente. Ma se la persona condannata da innocente ha dedicato la vita al delitto, e solo per ventura non è mai stata scoperta, sarebbe giusto sanzionarla per un illecito che non ha mai commesso? O meglio, la pena è una retribuzione per la condotta di vita, anziché per il singolo fatto? Forse l’uomo comune risponderebbe di sì, che si tratta di un male necessario. Il giurista non può invece condividere tale impostazione, perché nessuno può essere punito per un fatto che non ha commesso, fosse anche il peggiore delinquente sulla faccia della terra.
Bärlach, così agendo, si pone al di sopra della giustizia degli uomini. Egli diventa al contempo giudice e boia. Un giudice iniquo perché emette una sentenza delittuosa, dolosamente ingiusta. Al contempo, un boia che esegue spietatamente tale condanna. Facendo così, però, arriva a contraddirsi. Non era forse lui a sostenere che non esiste il delitto perfetto perché «non è possibile muovere gli uomini come pedine su una scacchiera»? Facendo uccidere Gastmann, Bärlach dimostra esattamente il contrario, ovvero che muovendo gli uomini come pedine di una scacchiera è possibile commettere il delitto perfetto. L'uomo di legge architetta un piano sadico per far uccidere il criminale; nel fare ciò, solo apparentemente vince la quarantennale sfida. In realtà Bärlach perde, e lo fa nel più misero dei modi. Per avvalorare la sua tesi, ovvero che nessun delitto può mai rimanere impunito, commette egli stesso un reato perfetto, così perfetto che nessuno saprà mai la verità. Bärlach cumula in sé tre funzioni: giudice, boia, ma anche assassino. Egli non crea diritto, ma delitto. Non fa giustizia, ma si pone allo stesso livello del criminale Gastmann. Per questa ragione, secondo il mio modesto parere, è proprio quest’ultimo a vincere la scommessa: con la sua morte ingiusta, o meglio, moralmente giusta ma contra ius, dimostra che il delitto perfetto esiste.
Copertina Adelphi con un autoritratto dell'Autore

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