10 aprile 2019

"Racconto d'autunno" di Tommaso Landolfi: oltre la letteratura di genere

In Racconto d'autunno (1947) convivono in perfetta simbiosi le due anime di Landolfi, ovvero lo scrittore puro e il solitario. Parlo di pura scrittura perché il romanzo è un perfetto esercizio di stile; ogni pagina, e si potrebbe ben dire ogni parola, è costruita con maniacale attenzione ai particolari, sì da sprigionare una forza evocativa difficilmente eguagliabile. Si pensi al lessico, all'uso di parole rare, ricercate, auliche, desuete o finanche inventate, come “ordinotte”, “amoerro”, “sguancio”, “canova”, “droppiere” e innumerevoli altre. Parlo poi di uno scrittore solitario, perché Landolfi non può essere ricondotto entro correnti o mode; come scrisse Carlo Bo nella prefazione di un'edizione BUR del 1975, egli «non obbedisce ad alcun codice, non segue riti d'alcun genere, è uno che vive davvero in un'isola e ogni tanto affida al mare dei piccoli messaggi sotto forma di divertimento, tra l'irrisione e la disperazione». Un uomo che proteggeva la propria libertà, al punto di scegliere la strada della non appartenenza ad alcun movimento. Per comprendere Racconto d'autunno si deve pertanto partire da tali premesse, da una componente autobiografica, si potrebbe dire quasi spirituale, arricchita da elementi di pura fantasia.
Racconto d'autunno è principalmente un romanzo d'interni, che si sviluppa tutto nelle stanze di un avito palazzo costruito sopra un isolato pianoro. Protagonista è un partigiano, anche se Landolfi non lo presenta mai espressamente come tale. Separato dai suoi compagni di lotta e braccato dall'esercito nemico, il protagonista, dopo aver vagato per aspri crinali e forre, raggiunge un antico palazzo all'apparenza disabitato, in cui decide di rifugiarsi. Qui vive, assieme a due feroci cani, un vecchio burbero e dispotico, di nobile famiglia decaduta, che decide a malincuore di ospitarlo. Nel palazzo aleggia però un'inafferrabile presenza femminile, che si rivelerà soltanto nel climax finale, grazie ad un rito esoterico. La casa, o meglio il maniero, non è solo lo sfondo in cui sono collocate le vicende, ma è uno dei personaggi del racconto, se non addirittura il vero protagonista. Immensa, labirintica e decadente, fagocita gli abitanti e li induce in uno stato di prostrazione emotiva che è l'anticamera della follia. Una casa all'apparenza vuota, ma in realtà permeata di presenze, un po' come la magione degli Usher del celeberrimo racconto di Poe.
C'è chi ha parlato di “romanzo gotico”, chi ha giustamente citato la corrente del “realismo magico”. In effetti, pur valendo le premesse circa la non riconducibilità di Landolfi ad alcun genere, Racconto d’autunno presenta gli elementi dell'uno e dell'altro. Certamente ricorrono aspetti del gotico ottocentesco, come il rapporto amore/morte, la negromanzia, la strisciante inquietudine che pervade le pagine dall'inizio alla fine. Tuttavia, appare evidente la volontà dello scrittore di inserire con naturalezza elementi fantastici in una cornice realistica, finanche provinciale, come nella migliore tradizione del cosiddetto realismo magico italiano.
A mio parere, non si può poi tacere un altro aspetto. Anche Landolfi, come tutti gli scrittori italiani della prima metà del secolo scorso, fu toccato e impressionato dalla guerra. A differenza di Vittorini, Fenoglio o Pavese, che fecero del romanzo civile una vera e propria bandiera, Landolfi scelse una strada diversa e appartata, ma non meno critica. In Racconto d'autunno, pur in forma indiretta, si allude a patrioti (i partigiani), a invasori (i tedeschi) e alleati (gli americani). Ma soprattutto, nella scena più drammatica del romanzo, Landolfi descrive le violenze inflitte alla popolazione civile dalle truppe inquadrate nei reparti alleati. È questo un evidente e dolente richiamo ai crimini di guerra compiuti in Ciociaria dai soldati nordafricani dell'esercito francese, i c.d. goumier. Per quanto lontano dal dibattito e dalla polemica, Landolfi espresse così, sia pure entro la cornice di una storia di fantasia, tutta l'indignazione per i torti subiti dai propri conterranei. Voglio pertanto chiudere con le sue parole, che fanno luce su un'ulteriore e possibile chiave di lettura di questo prezioso racconto.
«Essi, che in tempi precedenti avevano avuto a subire gravi torti, nel loro paese medesimo, dai nostri connazionali, giungevano ora qui colla sete della vendetta e l'animo dei saccheggiatori e degli stupratori, né, ebbri di conquista, si brigavano di distinzioni purchessia fra amici e nemici, armati e non.»
Edizione BUR del 1975

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