7 dicembre 2019

"Quel che resta del giorno" di Kazuo Ishiguro: l'arte di servire con dignità

I concetti di “dovere” e “dignità” costituiscono il fulcro del celebre romanzo di Ishiguro, pubblicato nel 1989 e trasposto sul grande schermo nel 1993. Il primo rappresenta la strada maestra di ogni maggiordomo, l'unico imperativo da seguire. La seconda è invece la somma qualità che un maggiordomo che si rispetti deve possedere, secondo i dettami della massima autorità in materia, la Hayes Society.
Le due qualità sono impersonate da Stevens, l'impeccabile maggiordomo di Darlington Hall, una grande magione nell'Oxfordshire, tra le più antiche e rinomate d'Inghilterra. Stevens, figlio d'arte, ha trascorso tutta la vita al servizio del controverso Lord Darlington, attraversando specialmente gli anni Venti e Trenta del Novecento, quando la casa di quest'ultimo era uno dei centri ufficiosi della politica internazionale. Dopo la guerra, morto il vecchio padrone, Stevens viene di fatto “acquistato assieme alla casa” da un ricco americano, presso cui presta servizio cercando di far rivivere i fasti del passato, nonostante l'ovvio ridimensionamento dovuto ai tempi.
Il romanzo, pur avvalendosi frequentemente dell'analessi, è ambientato nel luglio del 1956, quando una proposta apparentemente banale stravolge la metodica esistenza di Stevens. Il nuovo datore di lavoro si assenta per un periodo e concede al maggiordomo una settimana di ferie, lasciandogli persino la sua automobile e invitandolo a trascorrere una piacevole vacanza. Stevens, poco propenso ad un viaggio di pura evasione, decide di approfittare dei giorni di libertà per rivedere miss Kenton, la vecchia governante di Darlington Hall, che aveva lasciato la casa vent'anni prima per sposarsi. Stevens si convince ad intraprendere il viaggio solo dopo averlo mascherato con ragioni professionali, nella speranza di far tornare a Darlington Hall l'antica governante.
Anche se può sembrare una considerazione ovvia, Quel che resta del giorno è il tipico esempio in cui il viaggio, inteso come spostamento fisico da un luogo all'altro, è solo la metafora di un itinerario ben più lungo e accidentato, quello dentro di sé. Durante la settimana di libertà, Stevens fa un bilancio della propria esistenza, spesa nell'adempimento del dovere, sacrificata per la realizzazione di due fini: la soddisfazione dei desideri del padrone e il raggiungimento della “dignità”. Si leggano in proposito le pagine in cui rievoca la morte del padre, quale supremo esempio di attaccamento ai propri doveri e tentativo di raggiungere la tanto celebrata dignità. Eppure, per quanto egli tenti di sacrificare ogni emozione sull'altare del senso del dovere, i sentimenti tornano prepotentemente a fargli visita in occasione del viaggio, che diventa un'occasione per ripensare alla propria vita. Si apre così una crepa, che porta a galla la verità: il dovere è stata una gabbia, Darlington Hall una dorata prigione, la dignità una chimera che si può sfiorare ma non afferrare. Viene allora in mente il celebre Jacob von Gunten dello svizzero Walser, in cui si narra di una scuola per perfetti servitori, l'Istituto Benjamenta. C'è però una differenza di fondo: mentre nel romanzo dello scrittore elvetico l'obiettivo che la scuola si propone è quello di ridimensionare i propri allievi, fino a renderli “zeri, rotondi come un palla”, nel racconto di Ishiguro il saper servire è invece una strada per l'elevazione e la sublimazione di sé.
Concludo con una breve notazione sullo stile. Il romanzo è scritto in prima persona, sotto forma di un lungo monologo che prende vita sull'onda dei ricordi; a parlare è Stevens e pertanto il linguaggio è professionale, chirurgico, di un'aristocratica asciuttezza. Consiglio vivamente la lettura di questo classico moderno, scritto da un autore di origini giapponesi, eppure inglese fin nel midollo per tematiche, stile e ambientazione.
«La dignità in un maggiordomo ha a che fare, fondamentalmente, con la capacità di non abbandonare il professionista nel quale si incarna. […] I grandi maggiordomi sono grandi proprio per la capacità che hanno di vivere all'interno del loro ruolo professionale e di viverci fino in fondo; sono individui che non si fanno sconvolgere da eventi esterni, per quanto sorprendenti, allarmanti o irritanti questi possano essere.» 

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