Come era lecito attendersi, l'ultimo film di Gianni Amelio è stato
accompagnato da polemiche e giudizi, anche preventivi, segno che la parabola
umana e politica di Bettino Craxi è una ferita ancora aperta, che divide il
Paese in opposte fazioni. E allora è subito opportuno sgombrare il campo da
possibili fraintendimenti: Hammamet (2020) non è un film agiografico o celebrativo, e
neppure strettamente ideologico. Le vicende politiche sono accennate e si
riducono di fatto alla scena iniziale del Congresso 1989 del Partito
Socialista. Le vicende giudiziarie sono presenti in sottofondo, costituendo il
necessario presupposto della trama, senza entrare a far parte del cuore della
narrazione. È tutto un gioco sottile di citazioni e sottintesi, di riferimenti
volutamente mascherati, che si rivolgono ad un pubblico che conosce la vicenda
e non ha bisogno di vedersela raccontata con la freddezza del cronista
giudiziario. Gianni Amelio concentra la sua attenzione sul dramma umano
e personale di un uomo di potere che fugge all'estero per scampare ad un
processo che ritiene iniquo, sentendosi perseguitato dalla magistratura.
La mia impressione, ma potrei sbagliarmi, è che il nome “Craxi” non venga
mai fatto durante i centoventi minuti della pellicola, così come altri
personaggi di quegli anni sono indicati con nomi inventati. In una scena,
addirittura, il figlio dell'ex Presidente del Consiglio usa l'espressione “il
caso C.”, a riprova che si tratta di una precisa volontà degli sceneggiatori.
La scelta è funzionale al messaggio di fondo; se per un momento si abbandona
l'identificazione tra il protagonista e Bettino Craxi, si scopre l'essenza profonda del
film, il valore universale della storia diretta da Amelio. Il protagonista
trascende la storia recente italiana per diventare l'emblema dell'uomo politico
caduto in disgrazia, colui che nel giro di pochi mesi passa dal dirigere le
sorti di uno Stato all'essere spogliato di ogni potere.
In questo senso, sgombrato dagli ineliminabili riferimenti alla storia contemporanea
del Belpaese, il lungometraggio potrebbe andare bene ad ogni latitudine. Non
posso dire con certezza che fossero queste le intenzioni del regista, ma di
certo il film ruota intorno all'uomo e non al politico, approfondisce la
dimensione privata ed evoca solamente quella pubblica. Tre sono i temi
fondamentali: la malattia, la famiglia e il rimpianto. Il Craxi di Amelio non è
quello che si oppose agli americani a Sigonella; pur mantenendo la dignità e l'austerità
dei suoi giorni migliori, è soprattutto un uomo sofferente, costretto ad
estenuanti ricoveri in un ospedale pubblico tunisino. La famiglia, trascurata
negli anni gloriosi, diventa così l'approdo sicuro, unico legame solido che
resiste nonostante l'esilio. Ancora una volta, però, regista e sceneggiatori
non hanno optato per la soluzione più semplice, ovvero quella di rappresentare la
famiglia come il rifugio obbligato contro ogni malinconia; in verità, le
dinamiche familiari sono sviscerate con realismo e cinismo, senza nulla
nascondere dei piccoli odi, delle incomprensioni, delle meschinità e dell'incomunicabilità
di fondo che isola i protagonisti nella bolla del loro dramma individuale. Resta
poi il terzo grande tema: il rimpianto, o forse sarebbe più corretto parlare di
saudade. Il Presidente è un uomo ambizioso, abituato a muovere a piacimento i
fili del Paese; per questa ragione, l'inazione coatta a cui è costretto diventa
cocente frustrazione, come quella che deve provare una tigre chiusa in gabbia.
In questo guazzabuglio di depressione e mortificazione, l'unica speranza per
ricucire le ferite del passato e dare una speranza al futuro è quella di
aiutare Fausto, il figlio del compagno di partito Vincenzo, morto suicida pochi
giorni dopo aver ricevuto un avviso di garanzia. E proprio alla figura di
Fausto sono dedicati gli ultimi minuti della pellicola, con una struggente incursione
nel dramma privato, che trascende e supera la desolazione della cosa pubblica.
Nulla da aggiungere sull'interpretazione di Favino, monumentale come
affermato da tanti e più autorevoli commentatori. È certamente un film da
vedere, purché si affronti la visione con animo sereno e neutrale, sgombrato
dagli inevitabili pregiudizi.
La locandina di Hammamet, di Gianni Amelio (2020)
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