20 gennaio 2020

Morire di saudade ad Hammamet

Come era lecito attendersi, l'ultimo film di Gianni Amelio è stato accompagnato da polemiche e giudizi, anche preventivi, segno che la parabola umana e politica di Bettino Craxi è una ferita ancora aperta, che divide il Paese in opposte fazioni. E allora è subito opportuno sgombrare il campo da possibili fraintendimenti: Hammamet (2020) non è un film agiografico o celebrativo, e neppure strettamente ideologico. Le vicende politiche sono accennate e si riducono di fatto alla scena iniziale del Congresso 1989 del Partito Socialista. Le vicende giudiziarie sono presenti in sottofondo, costituendo il necessario presupposto della trama, senza entrare a far parte del cuore della narrazione. È tutto un gioco sottile di citazioni e sottintesi, di riferimenti volutamente mascherati, che si rivolgono ad un pubblico che conosce la vicenda e non ha bisogno di vedersela raccontata con la freddezza del cronista giudiziario. Gianni Amelio concentra la sua attenzione sul dramma umano e personale di un uomo di potere che fugge all'estero per scampare ad un processo che ritiene iniquo, sentendosi perseguitato dalla magistratura.
La mia impressione, ma potrei sbagliarmi, è che il nome “Craxi” non venga mai fatto durante i centoventi minuti della pellicola, così come altri personaggi di quegli anni sono indicati con nomi inventati. In una scena, addirittura, il figlio dell'ex Presidente del Consiglio usa l'espressione “il caso C.”, a riprova che si tratta di una precisa volontà degli sceneggiatori. La scelta è funzionale al messaggio di fondo; se per un momento si abbandona l'identificazione tra il protagonista e Bettino Craxi, si scopre l'essenza profonda del film, il valore universale della storia diretta da Amelio. Il protagonista trascende la storia recente italiana per diventare l'emblema dell'uomo politico caduto in disgrazia, colui che nel giro di pochi mesi passa dal dirigere le sorti di uno Stato all'essere spogliato di ogni potere.
In questo senso, sgombrato dagli ineliminabili riferimenti alla storia contemporanea del Belpaese, il lungometraggio potrebbe andare bene ad ogni latitudine. Non posso dire con certezza che fossero queste le intenzioni del regista, ma di certo il film ruota intorno all'uomo e non al politico, approfondisce la dimensione privata ed evoca solamente quella pubblica. Tre sono i temi fondamentali: la malattia, la famiglia e il rimpianto. Il Craxi di Amelio non è quello che si oppose agli americani a Sigonella; pur mantenendo la dignità e l'austerità dei suoi giorni migliori, è soprattutto un uomo sofferente, costretto ad estenuanti ricoveri in un ospedale pubblico tunisino. La famiglia, trascurata negli anni gloriosi, diventa così l'approdo sicuro, unico legame solido che resiste nonostante l'esilio. Ancora una volta, però, regista e sceneggiatori non hanno optato per la soluzione più semplice, ovvero quella di rappresentare la famiglia come il rifugio obbligato contro ogni malinconia; in verità, le dinamiche familiari sono sviscerate con realismo e cinismo, senza nulla nascondere dei piccoli odi, delle incomprensioni, delle meschinità e dell'incomunicabilità di fondo che isola i protagonisti nella bolla del loro dramma individuale. Resta poi il terzo grande tema: il rimpianto, o forse sarebbe più corretto parlare di saudade. Il Presidente è un uomo ambizioso, abituato a muovere a piacimento i fili del Paese; per questa ragione, l'inazione coatta a cui è costretto diventa cocente frustrazione, come quella che deve provare una tigre chiusa in gabbia. In questo guazzabuglio di depressione e mortificazione, l'unica speranza per ricucire le ferite del passato e dare una speranza al futuro è quella di aiutare Fausto, il figlio del compagno di partito Vincenzo, morto suicida pochi giorni dopo aver ricevuto un avviso di garanzia. E proprio alla figura di Fausto sono dedicati gli ultimi minuti della pellicola, con una struggente incursione nel dramma privato, che trascende e supera la desolazione della cosa pubblica.
Nulla da aggiungere sull'interpretazione di Favino, monumentale come affermato da tanti e più autorevoli commentatori. È certamente un film da vedere, purché si affronti la visione con animo sereno e neutrale, sgombrato dagli inevitabili pregiudizi.
La locandina di Hammamet, di Gianni Amelio (2020)

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