La trama complessa delle relazioni umane è il
principale oggetto d’indagine di Nick Hornby, che con Un ragazzo affronta
tematiche di stretta attualità con uno sguardo acuto e a tratti disincantato.
In primo luogo, il romanzo descrive in modo impeccabile il disagio esistenziale di chi vive nelle grandi metropoli, costretto ad una vita alienante e insoddisfacente. Londra, in tal senso, è disegnata come un immenso contenitore di nevrosi e malesseri. Ogni personaggio è, nel profondo, portatore di un male di vivere alimentato dall’ambiente che lo circonda. L’incapacità di rapportarsi con gli altri e l’incomunicabilità conducono inevitabilmente all’isolamento e al pervicace desiderio di annientamento, che non è solo fisico, ma soprattutto morale, nella ferma volontà di obnubilare la coscienza, magari di fronte al televisore sempre acceso.
In secondo luogo, il romanzo scruta la complicata dinamica delle relazioni genitori/figli, individuando nella graduale erosione del ruolo paterno uno dei mali profondi della nostra società. Nel romanzo tutti i personaggi maschili hanno abdicato, vuoi per scelta vuoi per inettitudine, alla funzione genitoriale. Tuttavia, è proprio nella riscoperta della paternità, nel superamento della negazione di tale ruolo, che si cela, secondo l’autore, la possibilità di dare un senso alla propria esistenza. “Un ragazzo” può quindi essere letto anche e soprattutto come romanzo di formazione, accorta analisi della difficoltà di divenire definitivamente adulti.
È stato detto che si tratta di un romanzo divertente, che analizza tematiche importanti con uno stile leggero. Non credo che l’affermazione possa essere condivisa fino in fondo, soprattutto se tale leggerezza di fondo si trasforma in una morale spicciola. Si legga in proposito con grande attenzione il finale, che sembra quasi voler dire che l’essere diversi è fonte di frustrazione e disagio, mentre la vera felicità consiste nell’essere uguali agli altri, annullando peculiarità e caratteristiche che ci rendono diversi e non conformi alla massa. Il piccolo Marcus, uno dei protagonisti del racconto, troverà infatti serenità ed equilibrio solo nel momento in cui, più o meno consapevolmente, cercherà di uniformarsi ai coetanei, cessando di essere agli occhi degli altri un diverso, un inguaribile alienato. Un messaggio forte e non pienamente condivisibile, trattato superficialmente, che chiude il romanzo lasciando nel lettore un senso amaro di incompiutezza.
In primo luogo, il romanzo descrive in modo impeccabile il disagio esistenziale di chi vive nelle grandi metropoli, costretto ad una vita alienante e insoddisfacente. Londra, in tal senso, è disegnata come un immenso contenitore di nevrosi e malesseri. Ogni personaggio è, nel profondo, portatore di un male di vivere alimentato dall’ambiente che lo circonda. L’incapacità di rapportarsi con gli altri e l’incomunicabilità conducono inevitabilmente all’isolamento e al pervicace desiderio di annientamento, che non è solo fisico, ma soprattutto morale, nella ferma volontà di obnubilare la coscienza, magari di fronte al televisore sempre acceso.
In secondo luogo, il romanzo scruta la complicata dinamica delle relazioni genitori/figli, individuando nella graduale erosione del ruolo paterno uno dei mali profondi della nostra società. Nel romanzo tutti i personaggi maschili hanno abdicato, vuoi per scelta vuoi per inettitudine, alla funzione genitoriale. Tuttavia, è proprio nella riscoperta della paternità, nel superamento della negazione di tale ruolo, che si cela, secondo l’autore, la possibilità di dare un senso alla propria esistenza. “Un ragazzo” può quindi essere letto anche e soprattutto come romanzo di formazione, accorta analisi della difficoltà di divenire definitivamente adulti.
È stato detto che si tratta di un romanzo divertente, che analizza tematiche importanti con uno stile leggero. Non credo che l’affermazione possa essere condivisa fino in fondo, soprattutto se tale leggerezza di fondo si trasforma in una morale spicciola. Si legga in proposito con grande attenzione il finale, che sembra quasi voler dire che l’essere diversi è fonte di frustrazione e disagio, mentre la vera felicità consiste nell’essere uguali agli altri, annullando peculiarità e caratteristiche che ci rendono diversi e non conformi alla massa. Il piccolo Marcus, uno dei protagonisti del racconto, troverà infatti serenità ed equilibrio solo nel momento in cui, più o meno consapevolmente, cercherà di uniformarsi ai coetanei, cessando di essere agli occhi degli altri un diverso, un inguaribile alienato. Un messaggio forte e non pienamente condivisibile, trattato superficialmente, che chiude il romanzo lasciando nel lettore un senso amaro di incompiutezza.
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