5 febbraio 2015

"Boxe" dei Diaframma: il riscatto da una vita balorda

Roma, 31 gennaio 2015. Federico Fiumani sale sul palco per l’ennesimo intenso concerto; il ciuffo è quello di sempre, la grinta anche. E mi viene da pensare che ha almeno due grandi (e meritate) fortune: un repertorio vastissimo, costruito praticamente da solo, e un pubblico che lo conosce a memoria. Può attaccare qualsiasi pezzo, anche il meno noto, tanto un irriducibile pronto a cantarlo lo trova sempre. Fa quello che vuole sul palco, non ha una scaletta predefinita, segue gli umori del cuore; alla base, però, un grandissimo rispetto per il suo pubblico. Sa quello che la gente vuole, e la accontenta. Soprattutto, sa di non poter rinunciare agli anni Ottanta, di dover continuamente fare i conti con i primi tre dischi, Siberia (1984), Tre volte lacrime (1986) e Boxe (1988). Sorprendentemente, però, Fiumani attinge a piene mani proprio dall’ultimo, il capitolo finale assieme a Miro Sassolini, l’album meno considerato della trilogia. Esegue cinque brani: Boxe, Adoro guardarti, Blu petrolio, Un temporale in campagna e Caldo. Il perché di questa scelta, ad oltre venticinque anni dall’uscita del disco, è chiaro: si tratta di un’opera epocale, che si lascia apprezzare alla distanza.
Per descrivere Boxe non c’è niente di meglio che partire dalla recentissima ristampa in vinile a tiratura limitata (2014, distrib. Self), che contiene un succoso libretto, con fotografie, recensioni e interviste. E proprio in una di queste interviste, in occasione della presentazione del disco, Fiumani ne ha ben spiegato il significato: “Boxe perché c’è in lei la lotta, il fascino, il senso di precarietà, la voglia di riscatto da una vita balorda, un senso di lealtà e di umanità profondo”. E ancora, Miro Sassolini, in un’intervista rilasciata nel 2003 a mescalina.it, ha detto che “Boxe fu il culmine dell’ultima stagione, labirintico come una fitta trama nervosa spedisce le sue ultime lettere d’amore, le fotografie, il canto evoluto e le note disperate. È struggente e naufrago. Bellissimo”. Bisogna partire da queste parole, per comprendere che Boxe non è un approdo e neppure un punto di partenza, non è né la conclusione di una trilogia né l’avvio di una nuova epoca; è un disco perfettamente compiuto, un episodio anomalo che si muove tra due poli: il sentore della fine e la totale libertà compositiva. Già con il precedente Tre volte lacrime i Diaframma avevano abbandonato il suono cupo e i testi oscuri tipici della new wave, per avvicinarsi con maggiore decisione alla forma canzone. Eppure è solo con Boxe che il percorso si conclude, che testi e musica trovano la loro forma definitiva. Nella title-track si respira la voglia di riscatto, l’orgoglio e al tempo stesso l’amara consapevolezza di una vita vissuta ai margini: “Domani non starà più a me / a tenere le braccia alzate, / a scorticarmi alle corde. / Domani se ti cercherò / avrò la faccia di un uomo pulito, / fresco come una rosa. / E una rosa non può appassire”. Seguono brani che strizzano l’occhio al punk (Blu petrolio, Dottoressa), ballate romantiche (Marta), canzoni tiratissime dai toni crepuscolari (Aspettando te, Un temporale in campagna). L’ultima traccia è Caldo, dove per la prima volta canta Fiumani, la cui voce caratterizzerà tutta la produzione degli anni a venire.
Dopo Boxe, il gruppo si sfalda, perché non aveva più senso andare avanti insieme. Mi piace credere che non siano stati i dissapori interni a separare il binomio Fiumani-Sassolini, destinato forse a non ricomporsi più. È stata la consapevolezza, sia pur non immediata, ma maturata negli anni, di aver pubblicato un disco unico, perfetto come pochi. Dopo Boxe non si poteva seguire la stessa strada, semplicemente perché sarebbe stato impossibile fare di più e di meglio, perché il solco tracciato non poteva essere percorso di nuovo senza cadere nel già sentito. Si ascolti l’interpretazione di Miro, mai così drammatica e teatrale, si rileggano i testi, non più oscuri e criptici, ma finalmente diretti; soprattutto, ci si immerga nell’atmosfera, calda e corposa.
Che cosa rimane? Profetici sono i versi che chiudono Aspettando te: “Nel cuore ho una grande sconfitta, / è una sorta di nostalgia, / non so, di nostalgia”. Un album intenso e malinconico, come un addio in una stazione ferroviaria di periferia. Di lì a poco, dopo il Boxing tour ’88, il nucleo storico del gruppo si scioglierà. Miro e Federico, lontani negli intenti e nelle dichiarazioni, prenderanno le loro strade. Senza rimpianti, o almeno così dicono loro.
Foto tratta dal libretto interno del disco

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