Roma, 31 gennaio 2015. Federico
Fiumani sale sul palco per l’ennesimo intenso concerto; il ciuffo è quello di
sempre, la grinta anche. E mi viene da pensare che ha almeno due grandi (e
meritate) fortune: un repertorio vastissimo, costruito praticamente da solo, e un pubblico che lo conosce a memoria. Può attaccare qualsiasi pezzo, anche il
meno noto, tanto un irriducibile pronto a cantarlo lo trova sempre. Fa quello
che vuole sul palco, non ha una scaletta predefinita, segue gli umori del
cuore; alla base, però, un grandissimo rispetto per il suo pubblico. Sa quello
che la gente vuole, e la accontenta. Soprattutto, sa di non poter rinunciare
agli anni Ottanta, di dover continuamente fare i conti con i primi tre dischi, Siberia (1984), Tre volte lacrime (1986) e Boxe
(1988). Sorprendentemente, però,
Fiumani attinge a piene mani proprio dall’ultimo, il capitolo finale assieme a
Miro Sassolini, l’album meno considerato della trilogia. Esegue cinque brani: Boxe,
Adoro guardarti, Blu petrolio, Un temporale in campagna e Caldo. Il perché di
questa scelta, ad oltre venticinque anni dall’uscita del disco, è chiaro: si
tratta di un’opera epocale, che si lascia apprezzare alla distanza.
Per descrivere Boxe non c’è niente di meglio che partire dalla recentissima
ristampa in vinile a tiratura limitata (2014, distrib. Self), che contiene un
succoso libretto, con fotografie, recensioni e interviste. E proprio in una di
queste interviste, in occasione della presentazione del disco, Fiumani ne ha
ben spiegato il significato: “Boxe perché c’è in lei la lotta, il fascino, il
senso di precarietà, la voglia di riscatto da una vita balorda, un senso di
lealtà e di umanità profondo”. E ancora, Miro Sassolini, in un’intervista
rilasciata nel 2003 a mescalina.it, ha detto che “Boxe fu il
culmine dell’ultima stagione, labirintico come una
fitta trama nervosa spedisce le sue ultime lettere d’amore, le fotografie, il canto
evoluto e le note disperate. È struggente e naufrago. Bellissimo”. Bisogna
partire da queste parole, per comprendere che Boxe non è un approdo e neppure
un punto di partenza, non è né la conclusione di una trilogia né l’avvio di una
nuova epoca; è un disco
perfettamente compiuto, un episodio anomalo che si muove tra due poli: il
sentore della fine e la totale libertà compositiva. Già con il precedente Tre
volte lacrime i Diaframma avevano abbandonato il suono cupo e i testi oscuri
tipici della new wave, per avvicinarsi con maggiore decisione alla forma
canzone. Eppure è solo con Boxe che il percorso si conclude, che testi e
musica trovano la loro forma definitiva. Nella title-track si respira la voglia
di riscatto, l’orgoglio e al tempo stesso l’amara consapevolezza di una vita
vissuta ai margini: “Domani non starà più a me / a tenere le braccia alzate, /
a scorticarmi alle corde. / Domani se ti cercherò / avrò la faccia di un uomo
pulito, / fresco come una rosa. / E una rosa non può appassire”. Seguono brani che
strizzano l’occhio al punk (Blu petrolio, Dottoressa), ballate romantiche (Marta),
canzoni tiratissime dai toni crepuscolari (Aspettando te, Un temporale in
campagna). L’ultima traccia è Caldo, dove per la prima volta canta Fiumani, la
cui voce caratterizzerà tutta la produzione degli anni a venire.
Dopo Boxe, il gruppo si sfalda, perché
non aveva più senso andare avanti insieme. Mi piace credere che non siano stati
i dissapori interni a separare il binomio Fiumani-Sassolini, destinato forse a
non ricomporsi più. È stata la consapevolezza, sia pur non immediata, ma
maturata negli anni, di aver pubblicato un disco unico, perfetto come pochi.
Dopo Boxe non si poteva seguire la stessa strada, semplicemente perché sarebbe
stato impossibile fare di più e di meglio, perché il solco tracciato non poteva
essere percorso di nuovo senza cadere nel già sentito. Si ascolti l’interpretazione
di Miro, mai così drammatica e teatrale, si rileggano i testi, non più oscuri e
criptici, ma finalmente diretti; soprattutto, ci si immerga nell’atmosfera,
calda e corposa.
Che cosa rimane? Profetici
sono i versi che chiudono Aspettando te: “Nel cuore ho una grande sconfitta,
/ è una sorta di nostalgia, / non so, di nostalgia”. Un album intenso e
malinconico, come un addio in una stazione ferroviaria di periferia. Di lì a
poco, dopo il Boxing tour ’88, il nucleo storico del gruppo si scioglierà. Miro
e Federico, lontani negli intenti e nelle dichiarazioni, prenderanno le loro strade. Senza rimpianti, o almeno
così dicono loro.
Foto tratta dal libretto interno del disco
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